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    Prodotti sostenibili: si o no?

    Continuiamo il nostro viaggio, come mi piace definirlo, per conoscere più da vicino alcuni aspetti relativi alla sostenibilità, termine molto inflazionato oggi e spesso utilizzato in modo improprio

    Quando scegliamo di acquistare, per esempio, una nuova maglietta, quanti di noi si soffermano sull’aspetto di realizzazione del capo in ottica sostenibile?

    Quanti di noi sono realmente interessati a conoscere gli impatti sull’ambiente per la realizzazione di quel specifico capo o accessorio ?

    L’industria dell’abbigliamento sportivo, ci confermano i dati, è in forte crescita.

    Secondo un report di Statista, il mercato globale dell’abbigliamento sportivo è valutato a 270 miliardi di dollari nel 2023 e si prevede che raggiungerà i 370 miliardi di dollari entro il 2028, con un CAGR del 5,5%.

    Ma questo settore industriale ha anche un impatto significativo sull’ambiente.

    La produzione di capi di abbigliamento richiede molta acqua, energia e risorse naturali, e genera inquinamento e rifiuti.

    Negli ultimi anni, i consumatori sono diventati più consapevoli dell’impatto ambientale delle loro scelte di acquisto e chiedono prodotti più sostenibili.

    In risposta a questa domanda, molte aziende di abbigliamento sportivo hanno iniziato a promuovere i loro prodotti come “sostenibili” o “ecologici”.

    Tuttavia, non tutte le aziende sono così trasparenti nel loro impegno per la sostenibilità. Alcune ricorrono al greenwashing, una pratica di marketing ingannevole che consiste nel presentare un prodotto o un servizio come più ecosostenibile di quanto non sia in realtà.

    La trasparenza è un elemento chiave per ottenere la fiducia dei consumatori e le aziende stanno investendo nella tracciabilità delle filiere.

    In “Re-fiber, il futuro delle fibre tessili è sostenibile” pubblicato da Pwc, troviamo dati interessanti sulle abitudini e inclinazioni dei consumatori intervistati. Si evidenzia che il 66% dei consumatori si aspetta di ottenere informazioni sui materiali che compongono il prodotto e il 63% di loro vorrebbe poter conoscere l’origine delle materie prime e i paesi di produzione.

    Lo studio di Transparency Index, valuta la trasparenza dei brand, analizzando le informazioni che rendono pubbliche relativamente all’impatto ambientale e sociale di tutta la filiera.

    Lo studio è stato pubblicato da Fashion Revolution, il più grande movimento di attivismo della moda al mondo, fondato successivamente al disastro del Rana Plaza nel 2013 (crollo di una fabbrica tessile in Bangladesh).

    Il report focalizza la propria attenzione su quanto i brand siano trasparenti sulle proprie catene di approvvigionamento, che tipo di politiche di sostenibilità seguano e, soprattutto, quanto condividano con il pubblico le proprie pratiche ed informazioni sui prodotti.

    Il Fashion Transparency Index (FTI) quindi valuta e classifica 250 tra i più grandi marchi e retailer di moda del mondo.

    La classifica si basa fondamentalmente sul livello di trasparenza pubblica in merito a questioni sociali e ambientali. Questa trasparenza comprende politiche, pratiche e impatti all’interno delle loro stesse operazioni e lungo le loro filiere produttive.

    L’indice utilizza un sistema di punteggio basato su 258 indicatori in diverse categorie sociali e ambientali.

    Alcuni esempi includono salari minimi vitali per i lavoratori, uso di sostanze chimiche pericolose, consumo di acqua ed energia, sforzi di riduzione dei rifiuti e riciclaggio… e altri.

    Lo scopo è quello di promuovere la trasparenza nel settore della moda. Incoraggiando i brand a divulgare più informazioni, i consumatori possono fare scelte consapevoli su dove acquistare.

    Ma rimane fermo un punto, o meglio una sfida per le aziende produttrici ovvero la raccolta, lo smistamento e riciclo dei rifiuti tessili che necessita di innovazione e che costituisce un’opportunità straordinaria per l’incremento dell’utilizzo delle fibre riciclate, con un possibile futuro risparmio sui costi, derivante anche dalla disponibilità e diffusione della tecnologia industriale.

    E tu, quanto green sei?

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