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    TennisTalker MagazineEditorialiQuando l'eleganza non faceva rumore: Coppa Davis la signora del tennis
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    Quando l’eleganza non faceva rumore: Coppa Davis la signora del tennis

    La stagione è finita! Come da consuetudine la Coppa Davis ha chiuso il sipario,quale ultimo atto. Una competizione a squadre tra le più antiche dell’intero sport mondiale, molto più antica dei campionati mondiali di calcio, è bene ricordare. Ma il fatto più incredibile è che si tratta di una gara a squadre giocata nel tennis, lo sport individuale per eccellenza. Così, ai quarti di finale si qualificavano le prime otto formazioni, adottando la formula a eliminazione diretta. Come è noto a tutti, l’Italia veniva eliminata proprio nei quarti dalla Croazia, sprecando la grande occasione per arrivare alle semifinali di Madrid, dove si giocava la fase finale 2021. Perché Madrid? Perché la federazione internazionale di tennis, proprietaria della manifestazione, la cedeva nel 2018 alla società privata Kosmos che tra l’altro ha sede anche in Spagna.

    Da quel momento la Coppa Davis cambiava volto. In ogni singolo evento la formula passava da cinque a tre incontri, nello specifico a soli due singolari e un doppio. E più ancora, ciascuna partita veniva giocata al meglio dei due set su tre, abbandonando quindi la distanza del tre set su cinque, quella in grado di caratterizzare la Davis dalla sua nascita fino, per l’appunto, al 2018. Eppure, malgrado questa trasformazione, in alcuni tennisti resiste l’originale sentimento di voler giocare per il proprio paese. Un’esperienza quasi religiosa, per dirla quasi come l’autore di romanzi David Foster
    Wallace. Un’emozione autentica che posso sinceramente confermare avendo giocato in maglia azzurra e per aver sfiorato qualche volta proprio la convocazione in Coppa Davis.

    Alla fine di questo 2021, la Russia di “Legno Storto” Medvedev, è tornata vincente per la terza volta. Il successo arricchisce un glorioso albo d’oro, parte di una favola colma di straordinario fascino.

    Storia di una particolare insalatiera

    Alla fine del XIX secolo, quattro studenti della squadra di tennis dell’università americana di Harvard, elaboravano un’idea magnifica. Il loro pensiero era ardito: sfidare i cugini inglesi in una competizione a squadre. Tra questi studenti, Dwight Filley Davis, otteneva nel 1899 il via libera dalle rispettive associazioni tennistiche nazionali per avviare l’iniziativa. Quell’anno, oltre a vincere i campionati universitari statunitensi, Dwight Filley, inventava la formula della sfida. La sua proposta si articolava in quattro singolari e un doppio. Tutte le partite si disputavano sulla distanza al meglio dei tre set su cinque. In altri termini, come si usa ancor oggi nei più grandi tornei di tennis: quelli del Grande Slam.
    Così, Dwight, comprava da Shreve, Crump & Low di Boston un’insalatiera d’argento di duecentodiciassette once, mettendola in palio come premio. Nasceva la Coppa Davis.
    La prima edizione si disputava nel 1900 negli Stati Uniti, presso il Longwood Cricket Club di Boston, e gli americani dominavano attraverso un gioco d’attacco impetuoso. L’anno successivo la contesa non veniva organizzata. Nel 1902, invece, l’incontro era nuovamente in programma sempre negli States, dove i padroni di casa vincevano nuovamente nella sede di Brooklyn, davanti a un pubblico esultante di diecimila spettatori. Una audience enorme, proprio come quando oggi scendono in campo i più grandi campioni. Il 1903, si rivelava un anno indimenticabile per i britannici e per l’inglese Lawrence Doherty, primo interprete del tennis a tutto campo, una sorta di Roger Federer ante litteram.

    Autentico mattatore della stagione e della Coppa Davis, conquistava l’ambita insalatiera. Nel 1907 cambiava lo scenario, la stella dell’australiano mancino Norman Everard Brookes brillava a tal punto da conquistare oltre a Wimbledon anche la Coppa Davis, sfilandola agli inglesi.
    Alla fine della grande guerra giungeva nuovamente il momento del tennis americano e Bill Tilden, il magnifico Leonardo del tennis, stabiliva con sette trionfi consecutivi in Coppa Davis un primato mai più superato. Nel 1927 i moschettieri francesi Brugnon, Borotra, Cochet, Lacoste, conquistavano l’insalatiera a Philadelphia a spese di Tilden. L’anno seguente, il tennis veniva scomunicato dallo sport mondiale per causa di alcune prestigiose racchette passate al professionismo.

    Una condizione proibita dal sistema sportivo internazionale dell’epoca che obbligava gli atleti allo status dilettantistico. Un ambito nel quale si gareggiava per la gloria e al massimo per il rimborso delle spese. Così, alle Olimpiadi di Amsterdam 1928 con 44 nazioni partecipanti, il tennis veniva cacciato dai Giochi, malgrado la Coppa Davis, seconda
    solo al torneo di Wimbledon, registrasse ben 32 paesi iscritti. In questo modo, attraversando la lunga separazione tra dilettanti e professionisti, novelli eretici dello sport mondiale, la Davis restava ancorata mondo dilettantistico. Tra le due guerre, l’insalatiera veniva contesa da francesi, britannici e americani, debuttando per la prima volta in televisione sul canale inglese della BBC nel luglio del 1937, per testimoniare all’incontro tra gli Stati Uniti e la Germania nazista.
    Terminata la seconda guerra mondiale gli australiani divenivano i principali dominatori della Coppa, fino l’avvento dell’era Open nel 1968. Da quell’istante veniva riconosciuto il tennis professionistico, quello che oggi tutti conosciamo. La Davis restava però, ancora per qualche stagione, legata al dilettantismo.

    Nel 1973, l’anno della liberazione, i grandi campioni australiani Laver, Rosewall e Newcombe, esclusi dalla contesa per l’insalatiera per il loro passato professionistico, venivano riammessi in campo. In finale, piombavano sulla squadra statunitense facendola a brandelli per 5 a 0 in quel di Cleveland, dimostrando come i professionisti fossero i più grandi artisti del tennis in assoluto. Fino a quel momento, la Davis era di casa presso sole quattro nazioni: Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Francia, guarda caso i paesi che ospitano i quattro tornei dello Slam. Da quell’attimo però altre 11 nazioni riusciranno finalmente a conquistare l’insalatiera più prestigiosa dello sport mondiale, tra queste l’Italia.

    La Davis nell’italianità

    Gli azzurri debuttavano in Coppa Davis nel 1922 perdendo contro i fortissimi britannici. Il barone Uberto de Morpurgo era il tennista italiano più rappresentativo, un giocatore in grado di vincere il bronzo olimpico nel 1924 a spese del campione di Wimbledon: il francese Jean Borotra. Negli anni Trenta, le sorti nazionali erano in mano a Giorgio De Stefani, primo italiano finalista in un torneo dello Slam: il Roland Garros 1932, e Giovanni Palmieri vincitore agli Internazionali d’Italia 1934. Nel dopoguerra il tricolore veniva difeso da Gianni Cucelli fino ad arrivare a gladiatori del calibro di Giuseppe Merlo e Fausto Gardini, protagonisti di epiche battaglie. Mentre a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta risplendeva la classe di Nicola Pietrangeli, primo italiano campione Slam, primo a raggiungere la finale in Davis. Occorreva per ben due volte nel 1960 e nel 1961. Medaglie d’argento che valevano oro, perché battere l’Australia di Rod Laver a Melbourne era a quel tempo cosa proibita. Nicola resta comunque primatista di Davis per incontri disputati.

    Così, con l’avvento dell’Era Open, arrivavano negli anni Settanta quei tennisti capaci di conquistare la prima e unica insalatiera della storia nazionale. Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, strappavano dagli artigli insanguinati del tiranno cileno Pinochet la tanto sospirata Coppa Davis. Questi quattro giocatori giocheranno altre tre finali, senza però riuscire a bissare il successo di quel mitico 1976 a Santiago del Cile. Nel 1998, l’Italia tornava nuovamente in finale, per la settima volta. In prima linea spiccava quale alfiere Andrea Gaudenzi, attuale presidente della ATP, il sindacato dei tennisti professionisti. Ad oggi, la nostra squadra non è più riuscita a raggiungere la finale. Eppure, la speranza che la Davis torni azzurra non è affatto un pensiero velleitario guardando al prossimo futuro.
    Ovviamente, se la squadra riuscirà ad arrivare all’appuntamento con il pieno organico nelle prossime edizioni.

    Riflessioni

    Una avventura estesa, quella della Coppa Davis, seppur qui riassunta in poche righe. Una storia, a mio avviso, che merita qualche riflessione di contorno.
    La Davis, come tutte le cose, è chiamata ad affrontare la sfida del tempo. Alcuni cambiamenti la vedevano forse non più corteggiata assiduamente, come in origine, da tutti i più grandi campioni. Un fatto percepito dal sistema come una crisi profonda, tale da costituire la ragione del suo passaggio alla società privata Kosmos nel 2018. Eppure, solo nei dieci anni precedenti la Davis era stata conquistata da nazionali nelle quali spiccavano racchette del calibro di Djokovic, Nadal, Federer, Wawrinka, Murray, Cilic, Del Potro. Alla faccia della crisi, vien da pensare!
    Così, la visione del nuovo direttivo riduceva il numero degli incontri, accorciava la distanza delle partite, standardizzava la competizione eliminando il fattore campo. Difatti, per oltre cent’anni gli incontri si svolgevano in casa di una delle due squadre antagoniste, potendo sfruttare l’elemento casalingo. Un aspetto pittoresco da un lato, ma al tempo stesso capace di garantire uno sconfinato coinvolgimento di pubblico, anche negli incontri di minor cartello. Per fare un semplice esempio concreto, bastava osservare quest’anno a Torino come le tribune fossero deserte quando non giocava l’Italia. Per intenderci, chi è andato a vedere incontri come Croazia contro Ungheria?

    Ulteriormente, è facile capire come dal punto di vista sportivo la distanza al meglio dei cinque set, quella tradizionale ancor oggi presente negli Slam, consenta di stabilire al meglio i reali valori in campo. Un fatto che ogni vero esperto, studioso, ricercatore, può confermare e certificare. Per cui vien da chiedersi: il successo e i conti di Wimbledon e dei tornei dello Slam funzionano ancora?
    Sinceramente, credo non esista dubbio alcuno circa come la formula tradizionale avrebbe aiutato una squadra giovane come l’Italia. Ma c’è dell’altro! Vista la reale crisi profonda del doppio, una specialità disertata da lungo tempo dai più grandi campioni. Dunque proprio adesso, nella nuova Coppa Davis, proprio il doppio assume un peso ancor più decisivo. Tennisti totalmente sconosciuti al grande pubblico tramutati nei principali protagonisti. Ma questa trovata ha per caso un senso sportivo, per non dire commerciale?

    A tutti gli effetti, non può sfuggire a nessuno l’amputazione effettuata da Kosmos nei confronti della tradizione. Così come le puntuali innovazioni, se così possono essere definite. Di fatto, ogni singolo istante durante le partite viene accompagnato da scenografie tecnologiche, musiche roboanti e grafiche psichedeliche. Quel che resta del teatro dei gesti bianchi sembra come trasfigurato in una turbinante sala giochi. Una configurazione tipica da gioco virtuale, si potrebbe dire, malgrado il tennis sia un gioco reale. Una ribaltamento copernicano in grado di tramutare un’arte secolare in un comune prodotto tecnologico. E’ forse questa la nuova grande idea in grado di proiettare il tennis nel futuro?
    La situazione è perlomeno confusa, i molteplici e continui cambiamenti testimoniano questo fatto. Già dal prossimo anno il World Group sarà modificato. La fase finale di novembre sembra traslocare da Madrid verso Abu Dhabi, un modo per consentire a Kosmos di rastrellare soldi. I tennisti saranno quindi costretti a passare in poche ore dalla stagione del tennis indoor invernale, al caldo torrido del sole mediorientale. Chissà poi quanti appassionati affolleranno gli spalti in quella sede! L’intenzione di guardare alla tradizione in cerca di ausilio pare essere esclusa. Rimettere in campo gli incontri casalinghi e le partite al meglio dei tre set su cinque non viene neppure contemplata. Così come l’idea di ripristinare la vecchia formula con quattro singolari e un doppio. Eppure, anche rimanendo nella dimensione al meglio dei due set su tre, quattro singolari in campo con quattro giocatori diversi certificherebbe la reale dimensione di una squadra. Questa si, a mio avviso, sarebbe una reale innovazione.

    Luca Bottazzi

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