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    Frech sbotta a Wuhan: “Non sono una macchina”, e accusa gli organizzatori per le condizioni estreme

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    La polacca si sfoga dopo la sconfitta con Siegemund nel terzo turno di giovedì scorso: “Giocare tre giorni di fila a 36 gradi non è tennis, è sopravvivenza”

    Magdalena Frech non è mai stata un personaggio incline agli strappi. Una che solitamente gioca e saluta, vince o perde senza clamore. A Wuhan invece ha perso il match e la pazienza. La numero 3 polacca è uscita di scena nell’incontro di terzo turno di giovedì scorso contro Laura Siegemund dopo aver condotto 4-1 sia nel primo che nel secondo set, sprecando anche un set point nella seconda frazione. Sconfitta pesante, certo. Ma ancora più pesante l’eco dei commenti ricevuti dopo la partita.

    Una “valanga di reazioni negative”, come le ha definite la stessa giocatrice. Non tanto per la rimonta subita quanto per, diciamo così, il modo. Così Frech ha deciso di spiegare “dove analisti e tifosi non hanno colto il punto”. E lo ha fatto con parole inusualmente dure per i canoni del circuito.

    Mi dispiace, ma non sono una macchina,” ha scritto la numero 53 del mondo. “Giocare tre giorni di fila dalle 13 alle 16 con 36 gradi, livelli altissimi di smog, cemento rovente e umidità estrema è accettabile solo se non succede tutti i giorni. Competere continuamente in queste condizioni estreme ha influito negativamente sulla mia salute, che metto sempre al primo posto,” ha insistito la tennista polacca.

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    Polemica? No, constatazione. Chi ha seguito il torneo lo sa bene: si gioca stabilmente tra i trenta e i quaranta gradi, con tassi di umidità sopra l’80%, in campi non coperti dove il cemento riflette più del buon senso. Già Iga Swiatek, Emma Raducanu e Bianca Andreescu avevano criticato la scelta di far disputare incontri in pieno sole. Frech si è aggiunta alla lista, ma con meno diplomazia.

    “Il sommarsi di sforzi di questo tipo ha conseguenze,” ha proseguito la ventisettenne di Lodz. “Non ho mai provato niente di simile nonostante i molti anni trascorsi nel circuito. Ho percepito cali di energia mai sperimentati e pensieri negativi che mi impedivano di fare un altro sforzo. Semplicemente colpire una palla in campo era una grande sfida. Non era più una partita di tennis, ma una lotta per la sopravvivenza,” ha concluso Frech.

    Magdalena ha ringraziato i tifosi “per il sostegno, la vostra presenza è importante”, ma non ha depositato ramoscelli d’ulivo sulle scrivanie degli organizzatori. E ha fatto bene.

    Perché se una partita diventa una sauna a cielo aperto, non si giudica più la tecnica, ma la resistenza. Il tennis resta uno sport. Non un test militare. E una frase come “non sono una macchina,” dovrebbe bastare da sola a spegnere certi moralismi da divano. Chi non lo capisce, probabilmente, non ha mai giocato un tie-break con la vista che si appanna e le gambe che rispondono in ritardo di mezzo secondo.

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