Tutto quello che c’è da sapere per studiare negli USA grazie al tennis e costruirsi una carriera da manager, oppure… entrare nella Top100!
Insistere con il tennis o concentrarsi sullo studio? È questo il dilemma che si trovano davanti i tennisti e le tenniste di talento fra i tredici e i sedici anni, quando i risultati positivi ottenuti sul campo iniziano a diventare inconciliabili con quelli da raggiungere sui banchi di scuola.
Per nulla aiutati da un sistema scolastico totalmente impreparato a sostenere le ambizioni sportive dei propri alunni, i ragazzi e le ragazze devono affrontare coi genitori una scelta che influenzerà il loro futuro: credere nel proprio talento e puntare tutto sullo sport, oppure ridurre l’impegno e dedicarsi a tempo pieno alla carriera scolastica?
La prima consapevolezza è che la via di mezzo non porta da nessuna parte. La seconda è che neanche le altre due scelte, al giorno d’oggi, danno ragionevoli garanzie di successo, anzi.
L’aspirante tennista sa di dover investire nel proprio progetto dai quindici ai trentamila euro all’anno per potersi permettere ciò che è indispensabile alla propria crescita, come un buon coach, i viaggi, gli allenamenti, eccetera.
E sa anche che per garantirsi una relativa autosufficienza economica dovrà entrare e restare nella Top 100 mondiale, che rappresenta circa lo 0,5 per cento dei professionisti attivi.
E per finire è consapevole che a carriera terminata – sempre che questa non si interrompa prima per un infortunio – le sue prospettive di reddito saranno molto limitate, essendo la carriera scolastica ormai tramontata e anche quella di maestro, sempre più specializzata, tutt’altro che scontata. Non che con le carriere tradizionali vada meglio, sempre più spesso neanche il conseguimento di una laurea costituisce una garanzia per l’ottenimento di un impiego.
Ma in questo scenario di grande complessità, esiste invece un percorso che proprio attraverso lo sport permette di ottenere sbocchi sia di tipo lavorativo che sportivo, spesso insieme. Si tratta del College Tennis. Il College Tennis è parte della NCAA (National Collegiate Athletic Association), l’organizzazione senza fini di lucro che gestisce gli atleti, americani e non, iscritti ai programmi sportivi dei college.
Nata nel 1973, la NCAA è strutturata in tre divisioni denominate D-1, D-2 e D-3, le prime due delle quali possono offrire borse di studio a copertura parziale o totale delle rette scolastiche nelle università di appartenenza.
L’importo totale delle borse ammonta a circa 46 miliardi di dollari all’anno, una cifra esorbitante per i criteri europei, ma assolutamente proporzionata al volume di affari generato dal sistema scolastico statunitense.
Ognuna delle 314 scuole della Division-1, ad esempio, può offrire dodici borse di studio per ciascuno sport che vi si pratica, di un importo variabile dai quindici ai centomila dollari per ognuno dei due semestri in cui sono divisi i quattro anni di studio.
In altre parole, un giocatore o una giocatrice che vengono selezionati dal coach di una squadra di College Tennis può frequentare l’università di quella squadra avendo tutta o buona parte della retta pagata. Il Tennis, perciò, diventa lo strumento per garantirsi tutta o parte della formazione universitaria negli Stati Uniti, la quale a sua volta apre le porte a un’infinità di opportunità.
IL PERCORSO DI SELEZIONE
Come prevedibile, entrare in una squadra del College Tennis e per di più con una borsa di studio è un obiettivo ambito dai ragazzi e dalle ragazze di tutto il mondo, pertanto la concorrenza è molto agguerrita. Tuttavia, il sistema americano è del tutto improntato alla meritocrazia per cui se si hanno le qualità giuste e soprattutto se si fanno le cose giuste, avere successo non è affatto impossibile.
Lo sa bene Mattia Pastore, che è stato un ottimo giocatore di College e che proprio durante gli studi ha fondato UNI Student Advisors, un’agenzia che aiuta i ragazzi e le ragazze che vogliono andare in America a fare tutte le mosse giuste per riuscirci. Tornato in Europa, Mattia ha conseguito ben due Master ed è diventato un giovane imprenditore internazionale di grande successo. Un ottimo esempio perfetto di dove possa arrivare un giovane tennista disposto a impegnarsi.
“La prima cosa da sapere se si vuole candidarsi a una borsa di studio”, ci racconta, “è quella di muoversi per tempo”.
La composizione e la distribuzione delle borse varia a seconda della scuola, e le offerte ai giovani atleti possono essere fatte anche un anno e mezzo prima della partenza del semestre. Quindi, il terzo e il quarto anno delle scuole superiori è il momento giusto per iniziare il percorso di selezione. Che è lungo e complesso, ma non impossibile, specie se si ha una buona conoscenza della lingua inglese. Nelle sue “Basic Recruiting Information” la USTA (United States Tennis Association) fornisce tutte le informazioni riguardanti il processo di selezione, che avviene online e che può essere gestito autonomamente se non si hanno le competenze (anche linguistiche) necessarie.
In ogni caso, è possibile appoggiarsi a una delle molte agenzie specializzate che per una cifra di alcune migliaia di euro offrono servizi di questo tipo, seguendo i ragazzi dal primo all’ultimo step.
“Ma bisogna fare attenzione” suggerisce Mattia, “perché non tutte le Agenzie hanno lo stesso livello di affidabilità. Bisogna fare attenzione ad alcuni elementi che devono insospettire, come la richiesta di firmare un accordo in esclusiva o l’impossibilità di contattare altri ragazzi che in precedenza hanno usufruito degli stessi servizi. E soprattutto, non devono esserci garanzie di successo. L’ottenimento di una Scholarship dipende da moltissimi fattori, primo fra tutti le esigenze delle scuole, e quindi nessuno può avere la certezza di ottenerlo”.
Ai consigli della USTA se ne aggiunge uno ancora più determinante che non si trova in nessuna application: provare se possibile l’esperienza in anticipo.
Ce ne parla con grande passione Claudio Pistolesi, ex numero uno juniores, campione italiano di singolo, ottimo professionista e poi coach di professionisti del calibro di Monica Seles, Simone Bolelli e Daniela Hantuchova.
“È importante che i ragazzi capiscano subito che dovranno uscire dalla propria comfort zone, preparandosi a una situazione in cui la famiglia non sarà presente. Dovranno esprimersi bene in una lingua che non è la loro, relazionarsi con persone provenienti da culture diverse in cui anche il modo di intendere una battuta, ad esempio, è diverso. Ma anche cavarsela da soli quando si tratta di rifarsi il letto, fare il bucato e fare acquisti, saper gestire il tempo senza sprecarlo, fare la doccia rapidamente per poi lasciarla libera e pulita al proprio compagno di stanza. Tutte cose che, se provate in anticipo, danno la possibilità di capire prima se le sfide del progetto-College sono alla propria portata”. Ed è proprio questa una delle mission della Claudio Pistolesi Enterprise, la società che Claudio ha fondato insieme alla moglie Cristina a Jacksonville, in Florida, e che ha già aiutato più di cinquanta ragazzi ad avvicinarsi al College Tennis.
“L’idea è nata nel 2013, ma ha preso forma guardando crescere mio figlio adottivo Yannick come giocatore di College e soprattutto facendo a mia volta il coach. All’epoca gli italiani che si candidavano per le borse di studio erano pochissimi, ma mi resi subito conto che non c’era nessun motivo per cui anche i nostri ragazzi, se ben preparati, non potessero ambire alle stesse opportunità. Per cui ho iniziato a lavorarci, aprendo una strada che poi nel tempo si è dimostrata vincente per i ragazzi e le loro famiglie. Ora nella nostra struttura ogni estate almeno venti ragazzi arrivano per provare l’esperienza e prepararsi alle selezioni. Di questi, circa la metà poi al College ci va davvero, e soprattutto lo porta a termine, e questa è la nostra più grande soddisfazione. Vivono l’esperienza del college ancora prima del College, ne capiscono i meccanismi, si confrontano in campo coi loro giocatori, lavorano sui propri punti deboli e infine conoscono i coach migliori, che in genere sono ex-giocatori e che io conosco personalmente in virtù della mia carriera di coach e di Pro.”
Consapevole del proprio ruolo, la CPE agevola i ragazzi che lo meritano creando percorsi personalizzati, e anche collaborando con iniziative non-profit come “Fallo di piede” (link all’articolo di TennisTalker), che quest’anno per la prima volta in Italia ha lanciato un bando destinato proprio ai ragazzi che volevano avvicinarsi al College Tennis.
“Ci siamo trovati subito in perfetta sintonia con gli organizzatori di questa bella manifestazione, ed abbiamo partecipato con grande piacere. Questo luglio abbiamo avuto qui con noi per due settimane Matilde Ercoli e Marco Lorenzon, due sedicenni molto promettenti che grazie a questo programma hanno prima lavorato con dei manager sugli aspetti attitudinali e motivazionali, e poi ci hanno raggiunto in Florida per partecipare ai nostri programmi. E sono tornati a casa non solo con un bagaglio tecnico aumentato, ma con un’esperienza umana splendida, la consapevolezza di poter tornare l’anno prossimo e addirittura con qualche biglietto da visita di coach in tasca”.
LA VITA NEL CAMPUS
“Studiare e giocare è molto impegnativo” racconta Mattia Pastore “ma negli Stati Uniti il sistema è molto diverso dal nostro. Si studia di meno, ma si studia meglio. E poi, le università offrono molte agevolazioni a chi le rappresenta sportivamente, come la possibilità di avere flessibilità su date e tempi degli esami, le ripetizioni gratuite e un’assistenza dedicata. In altre parole, se ci si impegna davvero ce la si fa tranquillamente, ed è un’esperienza bellissima. Gli studenti-atleti, durante il loro periodo di permanenza nella squadra seguono i corsi e partecipano ai campionati allo stesso tempo. La NCAA regola l’impegno sportivo limitando a otto ore alla settimana il numero massimo di ore di allenamento o gioco settimanali che il giocatore deve garantire, ore che salgono a venti durante la stagione agonistica. Un bell’impegno, ma fattibile”.
“Bisogna fare anche attenzione alla scelta dell’Università” aggiunge Federico Terreni, ex 2.4 e giocatore dello Young Harris College in Georgia. “La mia Università era meravigliosa, con una struttura all’avanguardia e dodici campi da tennis bellissimi, biblioteca e dormitori, tutto quello che veniva messo a disposizione dei duemila studenti era ai massimi livelli. Ma si trovava anche in un posto molto isolato e io, unico italiano, non avevo la possibilità di spostarmi se non con la squadra per le gare. In più essendo nel sud degli Stati Uniti non ha mai avuto campi coperti, ma ora il clima è cambiato per cui spesso ci capitava di … spalare la neve prima di giocare! Ecco perché è sempre meglio affrontare seriamente il percorso di selezione e andare sul posto prima. Anche l’aspetto accademico è importante. Se, come nel mio caso, l’intenzione è quella di avviarsi a una professione come quella dello psicologo, è meglio verificare subito come la laurea americana si integra con i risultati accademici italiani, altrimenti si rischia di vanificare i propri sforzi”.
E DOPO?
Appurato che ottenere una Borsa di Studio non è impossibile, e che sostenere il ritmo di uno Studente/Atleta è alla portata di una persona in gamba, rimane da capire se il gioco vale la candela, e cioè se alla fine del percorso di studi l’impegno viene ripagato. Che la risposta sia “si” appare scontato, che sia un sì grande se non enorme invece è meno noto, e soprattutto ancora in pochi stanno ragionando correttamente sull’evoluzione del tennis Professionistico, e su quanto questo abbia a che fare con il college tennis. Proviamo a dare un contributo.
Per cominciare, I NUMERI.
Negli Stati Uniti si trovano cinquanta delle prime cento università migliori a mondo, e il tasso di occupazione dei laureati a un anno dalla fine del percorso di studi è prossimo al 100%. Il salario minimo di ingresso è in media quattro volte superiore a quello dei loro coevi italiani, e il loro tasso di disoccupazione irrilevante. I canali di sbocco dalle università sono pressoché infiniti, ed abbracciano il mondo delle aziende, le libere professioni, tutti i settori possibili. Chi si laurea negli Stati Uniti ha di fatto un grande futuro davanti a sé.
Non solo. Non molti sanno che fra i laureati che si candidano per le posizioni all’interno dei programmi per i giovani talenti, i tennisti sono quelli più ambiti dalle aziende.
Un concetto che l’Amministratore Delegato di una società appartenente al “Fortune 500” (l’indice delle 500 maggiori imprese societarie statunitensi misurate sulla base del loro fatturato redatta dall’omonima rivista) ha sintetizzato in maniera mirabile: “Assumo tennisti ogni volta che posso. Sono i più preparati alla vita”.
Guardiamo il tennis dalla sua prospettiva. Un laureato che proviene dall’agonismo tennistico ha delle caratteristiche che le aziende moderne cercano con attenzione: grande cultura del lavoro, capacità di gestire le emozioni, abitudine a confrontarsi con le sconfitte e le vittorie.
Inoltre, come Studenti-Atleti hanno sviluppato abilità rare nei loro coetanei e preziose nel mondo del lavoro: time management e multitasking.
E’ dello stesso avviso Paola Vezzaro, Group Talent Director Global Regions di Engie, e International Talent Director. “I laureati che hanno fatto un’attività sportiva di alto livello aggiungono al loro curriculum un’esperienza differenziante che ha permesso loro di sviluppare competenze quali la resilienza, l’impegno, la disciplina. Se lo sport è di gruppo, anche lo spirito di team. Credo che un’esperienza all’estero (USA inclusi) sia un’ottima opportunità da cogliere. Il timore è umano, ma il ritorno dell’investimento è sempre positivo. Il confronto con realtà diverse permette di sviluppare una maggiore consapevolezza personale e un’apertura mentale che difficilmente si riesce a sviluppare se si vive in un solo paese. Si tratta in ogni caso, di un periodo della vita temporaneo che permette il rientro in Italia se desiderato. Inoltre, gli studenti italiani che studiano all’esterno dopo gli studi all’estero, sono aperti ad andare nel paese che offre le migliori opportunità professionali, e ad oggi l’Italia è raramente in testa alla classifica”.
E gli effetti si vedono. “Tutti i miei ragazzi” racconta Claudio Pistolesi, “dopo il College hanno avviato carriere fantastiche. Alcuni lavorano a Wall Street, altri sono nella Consulenza Manageriale, altri ancora sono diventati Psicologi, medici, tutti hanno trovato la loro strada.
E non è tutto. Non va dimenticato che le Università americane hanno ottimi programmi di formazione sportiva, e producono professionisti nei settori della preparazione atletica, della fisiatria, della medicina agonistica, tutte discipline che offrono ampi sbocchi nel mondo sportivo universitario e professionale.
Due mondi al posto di uno, anzi tre, ed è la sorpresa che non ci si aspetta, e sulla quale ancora pochi hanno riflettuto.
Agli US Open appena conclusi, e anche nei tornei precedenti delle US Series, Ben Shelton e Christopher Eubanks hanno rubato l’occhio degli spettatori salendo alla ribalta del tennis che conta.
Sono le young guns americane, le giovani promesse, ma al di là dell’età hanno fra di loro in comune una cosa che li accomuna ad altri pro come John Isner, Danielle Collins, Cameron Norrie, Jennifer Brady, Mackenzie McDonald, Maxime Cressy, Marcos Giron, Brandon Nakashima e molti altri prima di loro, primo fra tutti Kevin Anderson: sono giocatori di College Tennis.
“Il fatto è” spiega Pistolesi “che la situazione oggi è molto più vantaggiosa per gli Studenti-Atleti rispetto al passato. Tanto per cominciare, la maturità fisica arriva molto più tardi rispetto ai miei tempi. Becker vinceva Wimbledon a diciassette anni e a trenta si era pronti per il ritiro. Per cui se finivi di studiare a ventidue anni, avevi di fatto già perso il treno del professionismo. Ma oggi si matura fisicamente a ventisette anni, e si rimane competitivi fino a trentacinque se non oltre, il che significa che per esordire nel circuito a ventidue, quando il college finisce, non è affatto tardi. Inoltre, il livello tecnico delle competizioni di college si è elevato per effetto dell’ingresso dei ragazzi stranieri, forti e motivati, e con esso la qualità media dei giocatori e delle giocatrici. Un match di college tennis oggi ha poco da invidiare a quello di un ATP500, lo sforzo fisico richiesto nell’anno è simile, ecco perché i College Players si adattano così facilmente alla vita dei Pro”.
E poi c’è un’ultima cosa che fa la differenza, e che agli occhi degli operatori del settore invece è chiarissima. “Un ragazzo che finisce il college e poi tenta la carriera da Pro ha molta meno pressione del suo coetaneo che sta facendo la stessa cosa passando attraverso i challenger. Gioca infatti con una laurea in tasca, il che gli garantisce un futuro con delle opportunità comunque vada. In pratica gioca sul velluto, senza il patema di fallire da un giorno all’altro. E in più, al termine della carriera, avendo studiato è in grado di gestire molto meglio sia il ritorno alla vita non agonistica, sia la ricerca di opportunità proprio in quel settore, come allenatore, come manager e perché no, come imprenditore. Ecco perché sempre più giovani scelgono il College Tennis. Gli anni fra i 18 e i 22 sono devastanti, si è in competizione con altri ventimila giocatori nel mondo che vogliono la tua stessa cosa, e solo trecento di loro riescono a diventare professionisti. Affrontare quella fase senza pressioni è un vantaggio incredibile. Io stesso, se tornassi indietro al momento in cui ero numero uno al mondo juniores, riconsidererei in maniera molto diversa la proposta che mi aveva fatto la Pepperdine University di Malibù”.
E non dimentichiamo il Girls’ power: le università americane praticano la Diversity nell’assegnazione delle loro borse di studio a livello nazionale. Ma buona parte di quelle maschili vengono drenate da sport a forte componente maschile come il Basket o il Football, per cui negli altri sport abbondano quelle per le ragazze. Quindi le possibilità di ottenerle sono statisticamente molto maggiori.
I bamboccioni, le famiglie, i maestri
Abbiamo spiegato che con il College Tennis il futuro di un sedicenne bravo a scuola e con una buona classifica si prospetta come segue: quattro anni di impegno assoluto, ma con la possibilità di avere tutto pagato. Successivamente, una carriera professionale molto ben pagata, oppure un lavoro nel mondo sportivo, oppure ancora diventare un Top 100. E con la possibilità che una cosa non escluda l’altra.
Sufficiente per far accorrere ragazzi a frotte da Mattia Pastore, da Claudio Pistolesi o a Fallo di piede? Nient’affatto, i nostri ragazzi che tentano questa strada, secondo Mattia e non solo, sono circa l’1% di quelli che potrebbero. Una percentuale disarmante, specie se confrontata a quella di altri paesi, specie nell’est europeo.
E fra quelli che arrivano al College, tanti tornano indietro, anche per lo stile di vita americano che talvolta scoraggia i ragazzi italiani al primo anno di college inducendoli a rinunciare.
È la cosiddetta “crisi di rigetto”. Cibo diverso, mancanza della famiglia e degli amici, usi e costumi diversi, sono tutti fattori difficili da considerare in anticipo per i loro effetti, ma molto importanti quando si è sul posto.
“Dipende molto dal singolo individuo” ci racconta Pastore “io ho scoperto che lo stile di vita anglosassone fa al caso mio, al punto che di rientro dagli Stati Uniti mi sono stabilito a Londra. Tuttavia, capisco che per i giovani italiani, specie se poco abituati a viaggiare, si tratti di un problema. All’inizio mi ero detto di pensare positivo, ricordando a me stesso che in fondo l’Italia era sempre lì ad aspettarmi ogni volta che fossi voluto tornare. Inoltre, un po’ le cose sono molto cambiate negli ultimi anni, e gli standard alimentari in America ad esempio sono molto migliorati, sia nei ristoranti che nei supermercati, se hai la pazienza e la voglia di cucinare”.
Parliamo di ragazzi, Maestri e famiglie anche con Ugo Pigato, ex professionista e coach della figlia Lisa, promettente ventenne già ben posizionata nei ranking di singolo e doppio, e punto di riferimento per i maestri a livello nazionale.
“Lo sport è molto cambiato negli ultimi anni. C’è molta più informazione a livello familiare, ad esempio, i genitori sanno a cosa vanno incontro i propri ragazzi tentando la carriera tennistica, cosa che non succedeva anni fa. Questa informazione tende però a trasformarsi in eccesso di pressione per i figli e le figlie. Il meccanismo è sempre lo stesso. Arrivano i primi buoni risultati, e si creano le prime aspettative, Si alza l’impegno, aumentano le spese per sostenerlo. Ma poi il livello si alza e inevitabilmente arrivano le prime sconfitte. Ne seguono altre, magari più delle vittorie, e si alza la tensione. La famiglia, il coach, tutto l’ambiente che circonda il giocatore finisce ‘sotto inchiesta’. La logica conseguenza è che Il risultato diventa l’unica cosa che conta, perché è l’unica cosa che ripaga le aspettative. Ed ecco che si arriva al punto di rottura in cui il giovane, che nel frattempo è maturato, riesce a padroneggiare il meccanismo, oppure lo rompe smettendo di giocare. Ma il problema sta all’origine, bisogna giocare, e far giocare, per crescere, non per diventare campioni”.
Su questa lunghezza d’onda si inserisce il College Tennis, che consente una maturazione sportiva ed umana contestuali, alleggerendo la pressione. “E garantendo alternative”, aggiunge Pigato. “L’altra mia figlia, Giorgia, anche lei molto promettente, ha scelto di studiare grazie al Tennis negli Stati Uniti, si è laureata, ha conseguito un Master e adesso vive e lavora lì”.
La famiglia fa una scelta di vita, investendo sui ragazzi, ma deve farlo in maniera consapevole, e considerando tutte le opzioni.
E in tutto questo, il coach, il Maestro, ha un ruolo fondamentale.
“È indubbio” spiega Pigato “che l’uscita di un ragazzo per l’esperienza al College Tennis rappresenti una perdita economica per il Maestro e per il Circolo. Io stesso ne ho avuti una decina che hanno fatto questa scelta. Bisogna però, come professionisti, riflettere meglio. Prima di tutto, quello che all’inizio può essere un problema, poi può diventare una leva commerciale potentissima. Un maestro che sa creare opportunità per i ragazzi che vanno anche oltre il risultato sportivo, alla fine fattura di più. Perché attira più ragazzi, che arriveranno con in mente la possibilità di fare la stessa cosa. Inoltre, non bisogna mai scordare il proprio ruolo di insegnante, che deve favorire la crescita dell’individuo. La quale a sua volta contribuisce alla crescita della collettività. Sono i concetti che stiamo utilizzando nel progetto Cantera, il nuovo centro sportivo e residenziale che sta nascendo a Baranzate di Bollate, alle porte di Milano. Vogliamo creare un luogo dove i giovani e le loro famiglie possano trovare un ambiente sano, di livello internazionale, in grado di far loro esprimere le loro potenzialità, sia sportive che umane”.
“Un ragazzo che va al college è un ottimo investimento sia per i Maestri che per le famiglie” aggiunge Mattia Pastore. “In Italia, tradizionalmente, la famiglia risparmia per comperare ai figli la casa quando si sposano, o la macchina quando si laureano, mentre negli Stati Uniti e in altri paesi lo fa per finanziare la migliore istruzione possibile. E se non hanno risparmi, sfruttano il sistema delle borse di studio facendosi finanziare per la parte restante. Non spendono, investono, un tipo di mentalità che è alla portata anche delle famiglie italiane, che infatti sempre più numerose si avvicinano a questi aspetti”.
In conclusione, oggi come mai prima la racchetta non è solo un attrezzo, ma uno strumento magico che può portare i ragazzi e le ragazze in gamba davvero molto lontano, a patto che loro e le loro famiglie vogliano impegnarsi e uscire dalla propria comfort zone.
Attenzione però, l’inglese è il punto di partenza di tutto. Il livello conseguito nel test SAT, obbligatorio per le selezioni, contribuisce in maniera determinante al punteggio di ingresso al College, che a sua volta definisce la Division alla quale si può accedere.
Ma che l’inglese sia la chiave di tutto, non solo nel tennis, le nostre young guns lo sanno già!
Paolo Porrati