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    Sinner-Alcaraz per finta, applausi a tutti e zero rischi

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    Nel nuovo parco giochi dei re dello sport moderno si vende pathos in saldo e si chiama “Slam” ciò che in verità è una televendita

    Chiariamoci: se uno spettacolo si chiama “Six Kings Slam”, ma non è uno Slam, non è neppure un torneo, e nemmeno un’esibizione candida alla Rod Laver Cup — è uno spot pubblicitario con racchette in mano — allora forse la prima cosa da fare sarebbe togliere la parola Slam, che stona come la panna sulla carbonara. E no, non è questione di purismo terminologico: è questione di rispetto. Per chi un torneo, pur meno strombazzato, in questi giorni lo sta giocando davvero. E per chi il sabato sera, oltre ad arrischiarsi a guardare un Sinner-Alcaraz posticcio, deve pure mettersi a scrivere una cronaca per intero, domandandosi: ma ha senso sprecare il tempo della minestra per il tennis finto?

    In teoria, si dovrebbe celebrare il tennis. In pratica, si celebra l’euro al chilo, con biglietti modello concerto pop e pacchetti VIP da matrimonio sul Nilo. Tutto legittimo, per carità: ognuno è libero di monetizzare la propria fama. Ma almeno non ci si lamenti il giorno dopo del calendario, della stanchezza, dei voli intercontinentali.

    Perché allora la domanda è inevitabile: vale più una semifinale di ATP 250 sudata in tre ore o un tie-break concordato in Arabia con le telecamere puntate sulla tribuna degli sceicchi? Se guardiamo il tennis finto, tanto vale fingere di averlo guardato. Lo score si può inventare, prevedere, ipotizzare, in casi come questo: le emozioni no.

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    Il fatto è che questi eventi sono progettati per essere consumati come serie Netflix, non a caso orgogliosissimo sponsor-divulgatore della kermesse: “Click — play — format — applauso — sponsor — buonanotte”. Ma il tennis vero non è uno script da eseguire. È un diritto che muore in rete dopo tre ore di lotta. È un rovescio incrociato trovato col corpo in crampo. È un medical timeout preso tremando. Qui invece le emozioni sono a contratto: sei top player, un’oretta e mezzo di gioco, un vincitore fotogenico e nessuno che si azzardi a rovesciare il tavolo.

    E allora sì, viene da chiedersi: vale la pena sacrificare un sabato sera per parlare di una partita che non esiste? Oppure non sarebbe più onesto scriverla prima, riscaldare la minestra e brindare alla semifinale di Almaty, quella sì, giocata per davvero?

    Forse il punto è tutto qui: il tennis può tranquillamente essere intrattenimento, nessuno lo nega, ma che almeno si smetta di venderlo come epica. Se è spettacolo, che si prenda la sua dignità di spettacolo. Se è sport, che torni a pretendere il sudore. Nel mezzo c’è solo una fiera di mezze verità, dove tutti ridono ma nessuno crede davvero a quello che sta guardando. E lì sì, non c’è molto da raccontare. Voto zero.

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