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    Quasi amiche!

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    Esiste un problema di fair play nel tennis femminile? Perché un litigio fra tenniste è un tema da Social, e quello fra uomini è normale agonismo?

    You Cannot Be Serious – a cura di Paolo Porrati

    Mettiamo subito una cosa in chiaro. Nel far-west della Quarta Categoria, che ho avuto l’onore di arbitrare per sette anni, il caso creatosi tra Taylor Townsend e Julia Ostapenko sarebbe stato giudicato dai presenti in pochi istanti. E in tutta evidenza, avrebbe avuto ragione la Ostapenko.

    Evidenza numero uno: non consenti alla tua avversaria di fare un palleggio di riscaldamento decente perché vieni subito a rete. Non si fa. Evidenza numero due. Fai punto col nastro e non ti scusi, quindi te ne freghi dell’educazione, non va bene. Evidenza numero tre, a fine partita prendi in giro la sconfitta facendo presente che tu fai la borsa per il prossimo turno, lei quella per tornare a casa. Imperdonabile.

    Se poi ti capita che qualche partita dopo perdi al terzo dopo esserti vista annullare otto match point, sappi che nello Sport del diavolo la vendetta si serve fredda. E che fa male, molto male.

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    Ma nella terra del woke (che è ormai defunto negli USA, ma molto attuale nel tennis professionistico), vista la narrazione imperante che vuole tutti amare tutti con qualche eccezione condivisa dagli sponsor, tutto finisce lì, con qualche articolo e un paio di meme ben riusciti. Si va avanti in un contesto di pace ed equilibrio che rende forse il business più fluido ma che perde l’occasione per trasformare l’episodio del mancato fair play in uno spunto su un disagio psicologico che colpisce ormai molte atlete, anche se magari non produce effetti così spettacolari come nel caso di New York. 

    Esiste un problema di Fair Play al femminile?

    Non che di discussioni eclatanti fra giocatrici non ce ne siano state, ma se si guarda la numerica della faccenda il discorso sull’esistenza di un problema di fair play nel tennis femminile non regge. Il teatrino fra la Townsend e la Ostapenko – beninteso, a sua volta non un paradigma della correttezza in completo da tennis – ha solo un paio di illustri predecessori.

    Venus Williams – Irina Spîrlea

    Per trovare il primo non bisogna neanche spostarsi dagli Stati Uniti, ma solo tornare indietro di ventott’anni. E’ il 1997, e in semifinale si incontrano la diciassettenne Venus Williams, alla sua prima apparizione nelle fasi finali del torneo, e Irina Spîrlea. Durante un cambio campo, la rumena urta deliberatamente la giovane Venus con la spalla al centro del corridoio, senza cederle il passo. Il gesto viene visto come provocatorio e alimenta immediatamente le polemiche.

    Contribuisce al tutto il solitamente pacatissimo padre di Venus, Richard (nella realtà assai distante dal personaggio santificabile interpretato da Will Smith in “Una famiglia vincente”), che definisce senza mezzi termini la Spîrlea come “scimmia bianca arrogante”, scatenando accuse di razzismo a sua volta. I media ovviamente non si fanno sfuggire la ghiotta occasione e amplificano il caso facendolo diventare l’episodio una delle scene più citate della storia WTA, simbolo di tensioni culturali e generazionali. Per la cronaca, la Spîrlea viene multata di 1.500 dollari per comportamento antisportivo. Ma Venus vince comunque la partita.

    Fist pump

    Il fist pump (in lingua inglese “pompare con il pugno“) è un gesto di esultanza eseguito alzando il pugno chiuso davanti al torace e poi abbassandolo con un rapido movimento, una o più volte. È una pratica che ha addirittura un primatista mondiale, Ray Slater, produttore del Bobby Bones Show, che ha stabilito il record del mondo appunto di fist pumping ripetendo il gesto per 17 ore e 15 minuti (chissà poi perché).

    La versione tennistica, che Clerici chiamava “il pugnetto”, e si usa come gesto di esultanza per avere realizzato dei punti o aver ottenuto una vittoria, e può risultare molto fastidioso per l’avversario, o l’avversaria, specie se eseguito “in the face” e cioè rivolto direttamente a lui, o lei.

    You Cannot Be Serious - Fist pump
    You Cannot Be Serious – Fist pump

    Ana Ivanović – Jelena Janković

    Madrid 2010, in campo ci sono Ana Ivanović e Jelena Janković, due delle tenniste più forti prodotte dalla Serbia, che si contendono la leadership nazionale e il n. 1 del ranking mondiale. Janković reagisce in modo plateale ad un’esultanza di Ivanović (appunto il fist pump), imitandola in maniera ironica e caricaturale davanti al pubblico. Una cosa mai vista, in un tennis come quello femminile dove il dissenso mediamente viene espresso a suon di strette di mano gelide o inesistenti a fine partita.

    Va detto che le due già non si sopportano da tempo: Ivanović accusa Janković di scorrettezza e scarsa sportività, Janković la definisce “troppo costruita” e poco genuina. In più, la stampa serba alimenta la rivalità, trasformandola quasi in una faida nazionale. A seguito dell’episodio, i rapporti fra le due ragazze rimangono tesi per anni, anche fuori dal campo. Solo di recente hanno parlato di “rispetto reciproco”, pur ammettendo di non essere mai state amiche.

    Da notare che questi due episodi hanno in comune il fatto di essere andati oltre il tennis: Spîrlea–Williams diventò un caso culturale e mediatico, legato al razzismo e all’immagine delle sorelle Williams. Ivanović–Janković fu lo specchio di un Paese (la Serbia) diviso su quale fosse la “vera regina” del tennis nazionale.

    E gli uomini?

    Complessivamente, comunque, poca roba. Niente a che vedere con le esibizioni al maschile, così frequenti e numerose da costringere l’ATP a rivedere il suo Codice di Condotta, e spingere il Presidente Andrea Gaudenzi a dichiarare: “Abbiamo tutti un ruolo da svolgere per sostenere la reputazione e l’integrità del nostro sport. Gli incidenti antisportivi danneggiano l’immagine del tennis e mandano un messaggio sbagliato ai giovani”.

    Secondo un’analisi del 2024, i comportamenti più comuni che violano il fair play includono contestazioni continue agli arbitri, ritardi deliberati nel gioco, urla e imprecazioni, lancio della racchetta, colpi intenzionali verso l’avversario, commenti offensivi o provocatori, abuso delle pause mediche per vantaggio tattico e riguardano un numero considerevole di atleti. Ma quando si tratta di giocatori uomini, questa una delle considerazioni che alimentano la discussione sulla fair play diversity, questi comportamenti sono considerati alla stregua di un’estensione della componente agonistica, e raramente stigmatizzati. Tutt’al più fanno sorridere. Ma con le ragazze è tutta un’altra storia.

    You Cannot Be Serious - E gli uomini?
    You Cannot Be Serious – E gli uomini?

    Una lettura alternativa: nel femminile tutto è amplificato

    Gli psicologi sportivi evidenziano delle differenze di genere che almeno in parte spiegano non solo e non tanto gli alterchi fra le giocatrici, quanto il progressivo malessere che sembra essersi impossessato di molte atlete di vertice, al punto da minarne la stessa permanenza all’interno del contesto agonistico internazionale. Le atlete lamentano in particolare:

    • Pressione mediatica e sociale eccessiva: nel tennis femminile ogni gesto viene osservato con lente d’ingrandimento. Una smorfia o un’esultanza vengono interpretati come arroganza, mentre nei colleghi maschi vengono interpretati nell’ambito dell’esuberanza agonistica, come dicevamo poc’anzi;
    • Doppio standard di genere: molte giocatrici hanno denunciato di essere giudicate più duramente degli uomini. Serena Williams nel 2018, dopo la lite con l’arbitro Ramos, dichiarò: “Un uomo non sarebbe mai stato penalizzato così”;
    • Fragilità psicologica in un circuito sovraccarico: Naomi Osaka ha ammesso che “l’equilibrio mentale è fragile” e che la violenza dei social rende ogni sconfitta un’onta pubblica. Il confine tra sfogo e perdita di controllo diventa sottilissimo;
    • Identità ed orgoglio: per molte atlete, non si tratta solo di vincere un match, ma di difendere un’immagine di forza, nazionalità, genere. Da qui nascono scintille che travalicano il fair play.

    Il contesto culturale del resto non aiuta. La spettacolarizzazione del tennis femminile amplifica i contrasti. In un’epoca in cui un litigio diventa virale in pochi minuti, lo “scontro” fa più notizia della vittoria. Questo crea un circolo vizioso: più liti, più clamore, più attenzione, con il rischio che il fair play resti sullo sfondo.

    Il tennis femminile, più di quello maschile, sostiene lo psicologo sportivo Peters, è esposto al giudizio estetico ed emotivo. Questo aumenta il bisogno di difesa e diminuisce la tolleranza verso frustrazioni e sconfitte. Risultato: il tennis femminile resta un’arena di straordinaria intensità, ma anche un campo minato dove fair play e immagine pubblica vengono messi alla prova più delle stesse abilità tecniche. Maria Sharapova diceva già tempo addietro: “Nel tennis femminile non basta giocare bene, devi anche sembrare forte, invulnerabile. E questo rende i rapporti più tesi.”

    Una via d’uscita

    Quindi, non esiste in realtà un problema di decadimento del fair play al femminile, bensì un tema di pressione differente e maggiore sulle giocatrici che sta iniziando a farsi consistente e pericoloso. Come uscirne? Beh, certo non sta a me trovare una soluzione, tuttavia per quella che è la mia esperienza gioverebbe molto se tutto il movimento cominciasse a ragionare in termini più moderni sulla propria componente femminile.

    Il Tennis femminile non è il tennis praticato dalle donne, è uno sport con specificità sue proprie che condivide con quello degli uomini tutte le regole e buona parte dei meccanismi organizzativi. Pertanto, ha diritto ad un trattamento da parte di tutti che lo equipari – certo – dal punto di vista del trattamento economico ma anche da quello del trattamento umano e relazionale.

    Perché Alexander Zverev che evita una sospensione di otto settimane grazie a una condizionale di dodici mesi, dopo aver colpito la sedia dell’arbitro ad Acapulco, merita lo stesso clamore mediatico riservato alla discussione fra la Ostapenko e la Townsend. Le quali, intelligenti come sono, magari, prima o poi, diventeranno … quasi amiche.  

    YCBS-Paolo Porrati


    You cannot be serious è la nuova rubrica settimanale di Tennistalker Magazine dedicata a tutto ciò che nel tennis non rimbalza ma … fa rumore lo stesso! A cura di Paolo Porrati: accanito “quarta categoria”, è stato Giudice Arbitro per la FITP e ha partecipato da spettatore a tutti gli Slam, Finals Davis e Olimpiadi. Il suo romanzo giallo “Lo Sport del Diavolo”, pubblicato da Laurana Editore e ambientato nel mondo del tennis, è stata la sorpresa letteraria sportiva dello scorso anno.

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