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    TennisTalker MagazineIl grande vuoto canadese

    Il grande vuoto canadese

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    Forfait a grappolo, poster scolorito: quando il calendario è infinito a finire sono i corpi (e la credibilità)

    Toronto, laboratorio dell’ipocrisia sportiva. Il torneo che si reinventa “esteso”, 12 giorni per respirare, più soldi, più diritti tv, più tutto. E invece il primo dato che respira è l’elenco dei forfait. I protagonisti saltano, il manifesto pubblicitario si scolorisce, resta la macchina organizzativa che fa finta di nulla: “The Show must go on”. Certo. Ma a quale prezzo, e per chi?

    Il tennis è l’unico sport che pretende di essere globale, continuo, infinito, e poi magari ci si stupisce se i corpi tirati allo sfinimento presentano il conto. Masters che si dilatano, Slam intoccabili, Olimpiadi ogni quattro anni in mezzo come un chiodo nel calendario, esibizioni ben pagate travestite da spettacoli magari ammantati di qualità divulgative. L’aritmetica è spietata: quando tutto è “imperdibile”, qualcosa – o qualcuno – lo perdi per strada. Di solito il pubblico. E, con lui, la credibilità.

    Gli organizzatori canadesi hanno venduto un prodotto “premium”. Hanno ricevuto un tabellone buono, ma non quello promesso. In borsa, questa operazione, si chiamerebbe asimmetria informativa: compri un asset sulla parola, ti arriva qualcos’altro, di solito non migliore. Il regolamento consente, i giocatori decidono, in alcuni casi si barcamenano, l’ATP benedice: la catena delle responsabilità è perfettamente legale, quindi perlomeno sospettabile d’irresponsabilità.

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    Si dirà: meglio proteggere i top che rischiare ricadute. Giusto. Ma dov’era questa prudenza quando si è scelto di allungare i “Mille” a due settimane, rendendo il Tour una linea di produzione? Si preciserà, allora: l’infortunio non si programma. Vero. Ma si programma il contesto che lo rende statisticamente più probabile. E quello, oggi, è scritto a caratteri cubitali: troppo, ovunque, sempre.

    Il paradosso è che Toronto, privata delle sue prime firme in fuga, diventa improvvisamente un torneo “aperto”: chance per chi rincorre, punti che costavano tantissimo e che improvvisamente finiscono in saldo come i costumi da bagno a fine agosto, carriere che cambiano pendenza in una settimana. Il mercato delle opportunità non dorme mai. Dormono – male – soltanto i tifosi che avevano speso per vedere i fuoriclasse, dal vivo come in TV. L’industria risponderà con la solita retorica: “Nuove storie”, “nuovi volti”, “new balls, please”, parafrasando lo slogan che si proponeva di rilanciare il tennis rimasto orfano delle sue stelle (e strisce) all’inizio del nuovo millennio. Va bene per una volta, non come modello di business.

    La governance? Evoca la tutela dei giocatori e intanto spinge per nuovi format, nuovi pacchetti commerciali, nuove piazze. È un capitalismo selettivo: privatizza i benefici (diritti, bonus, ingaggi), socializza i costi d’immagine scaricandoli su chi compra i biglietti e accende la tv. Quando i migliori non giocano, il torneo resta “d’élite” solo per statuto. Sul campo diventa un “1000” con il profilo competitivo di un “500” frequentato così così, con tutto il rispetto per chi fa il borsone e in Ontario ci va davvero.

    Morale provvisoria: il sistema ha bisogno di una verità dei calendari: obblighi meno ipocriti per chi si iscrive, finestre reali di recupero, trasparenza sui responsi degli accertamenti fisici, meno marketing e più pianificazione. Altrimenti, ogni estate ci ritroveremo col solito copione: presentazioni trionfali, comunicati di forfait a raffica, temporali social tendenti alle grandinate di “non vedo l’ora di tornare l’anno prossimo”, e poi la conferenza stampa protocollare in cui gli organizzatori, spettinati e pallidi, si trincerano dietro al comprensibilissimo classico dei consuntivi, di solito adeso alla formula che recita “il pubblico ha comunque visto grande tennis”. Può darsi. Ma non era quello per cui aveva pagato.

    Toronto è partito lo stesso, perché i tornei partono sempre. La domanda è se il circuito, così com’è, potrà restare intero ancora per molto. Chi pagherà il conto, alla lunga, non saranno solo gli spettatori: saranno i giocatori stessi, spremuti e poi criticati quando decideranno di fermarsi. Il tennis ha imparato a monetizzare tutto tranne la cosa più semplice: la fiducia. E senza quella, i tabelloni – anche i più lunghi – restano fogli di carta un po’ stropicciata.

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