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    Il tennis moderno fra stress e aspettative porta giocatrici e giocatori al punto di rottura. Ma è l’affollamento del calendario il vero problema?

    You Cannot Be Serious – a cura di Paolo Porrati

    Iga Swiatek ha definito il calendario “troppo intenso” affermando che i giocatori e le giocatrici non dovrebbero essere costretti a disputare più di venti tornei ogni anno solo per difendere il ranking. De Minaur, dopo la sconfitta al Roland Garros, ha etichettato la stagione come “non normale”, spiegando che “si sta correndo troppo, si esauriscono le energie e la carriera ne soffre. Tsitsipas, Zverev e Alcaraz hanno criticato l’estensione dei Master a due settimane, affermando che questo cambiamento diminuisce il tempo per la preparazione e il recupero, e che è un formato poco adatto ai giocatori d’élite.

    In sintesi, praticamente tutti i migliori giocatori si lamentano di una situazione che li vedrebbe troppo spremuti da un calendario asfissiante e privo di interruzioni. Ma sarà vero?

    Animato dallo spirito statistico del Maestro Rino Tommasi, ho pensato di ragionare un po’ su questa situazione.

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    Si gioca troppo? I numeri la pensano diversamente

    Nel 2023, anno le cui statistiche definitive sono già completamente disponibili, i top 10 hanno giocato una media di 57 partite a testa. Medvedev, Tsitsipas e Ruud si sono assestati fra le 55 e le 65, Zverev Hurkacz Fritz Djokovic e Tiafoe fra le 50 e le 60, Alcaraz 67 e Sinner 70. Se aggiungiamo Davis, Hopman Cup e Rod Laver Cup, per chi l’ha giocata, possiamo concludere che in quella stagione un ottimo giocatore ha dovuto assistere al rito del coin toss fra le 65 e le 70 volte.

    Nel 2024 i numeri dovrebbero essere sostanzialmente analoghi, ma diciamo che per prudenza alziamo il target a 73 match.

    Nel 2014, quindi in un’epoca distante, ma già entrata in pieno nel gradimento mainstream del tennis, Roger Federer giocò 85 partite. Con Nadal ai box per infortuni assortiti, Nole strinse la mano degli avversari 70 volte, , Andy Murray 75, Key Nishikori 70, Marin Cilic idem, Stan Wawrinka addirittura 93. Lo scansafatiche del gruppo fu Thomas Berdych con 65.

    Per amor di precisione, ho anche sbirciato i numeri del 2004. Cambia poco, anche in quell’anno se fossi stato bravo avresti dovuto mettere in conto almeno una settantina di completini da utilizzare, o settanta lavaggi dello stesso completino (ndr. ora il problema dei completini non si pone, in effetti questo sì che è cambiato. Le nuove collezioni dei completi da tennis ormai sono così frequenti che fra un po’ verranno lanciate dai vari Alcaraz e Sinner direttamente fra un cambio di campo e l’altro).

    Quindi, se parliamo di match, stesso impegno, ora come allora. Anzi, volendo, prima si giocava di più. Immagino quindi con simpatia i boomer di dieci anni fa sogghignare dei crucci degli attuali GenZ del tennis. E ricordando il caratterino di alcuni di loro, non escluderei che lontano dalla pervasività dei social, circondati da una muraglia di trofei personali, attorniati dai familiari che li hanno seguiti e accuditi per anni fra giri del mondo e acciacchi mondiali, con in mano un Whiskey e non una bottiglietta di acqua aromatizzata, si lascino scappare un godutissimo “smidollati”!

    La realtà va vista da più prospettive. E se sbagliassimo angolazione?

    Io però non mi accontento. D’accordo, non è vero che numericamente si gioca molto di più ggi rispetto anche a solo dieci anni fa, ma è davvero la stessa cosa giocare oggi e aver giocato dieci anni fa una partita? La risposta è no, e non è solo una questione di materiali o di preparazione fisica.

    E anche qui la statistica dà una mano andando ad analizzare i numeri di Novak jokovic ed evidenziando che a parità di match, il campione gioca nel corso della sua carriera scambi sempre più numerosi, e più lunghi. Quindi rimane in campo più a lungo. Sempre più a lungo. E questo significa, per tutti, logorio fisico e mentale.

    Qui ci vengono incontro il buon senso e la buona memoria. In un Mille, come in altri tornei, una partita che durava due ore e mezza era una scommessa vinta all’atto di comperare il biglietto, un buon ritorno sull’investimento. Quest’anno la durata media – media, non massima – di un match al Foro Italico è stata appunto di due ore. Nel 2015 era di un’ora e mezza. In sintesi, le partite durano di più e sono più dure. Tradotto, il livello medio si è alzato, si è uniformato verso l’altro, e anche i top player faticano a portare a casa i match quando anni fa non dovevano.

    E non è tutto. A questo poi va aggiunto che è cambiato il meccanismo utilizzato per il calcolo della difesa dei punti validi per il mantenimento del ranking. Sa sei top 30, vieni considerato un “Commitment player” e sei obbligato a giocare i 4 tornei dello SLAM, gli 8 Masters, le Finals e almeno 4 tornei 500.

    I risultati di Slam, Masters, e altri tornei per un totale di 7 giocati nelle ultime 52 settimane ti fanno il totale annuale. E attenzione, se ti iscrivi e ti ritiri a uno Slam o a un Master e non sei infortunato, il torneo ti viene comunque calcolato a zero punti. Quindi, se sei in una botte di ferro per l’abbuffata di punti nei mesi precedenti, puoi dire “Ciao Toronto” come Jannik e Carlos questa settimana. Altrimenti, in Canada devi andarci anche se ti sei preso la west nile a Latina.

    Per non parlare del fatto che per fare bene i calcoli sulla tua classifica hai tre sole alternative: assumere un professore di statistica avanzata comparata da aggregare al team al posto del massaggiatore, adescare il nipote genio del computer perché ti faccia lui somme e sottrazione in cambio dell’abbonamento Supergold a Onlyfans, oppure … ma questo lo sapete già … iscriversi a Tennistalker!

    E quindi, ecco che mi immagino Carlos, Jannik, Damon, Holger, Jack, Ben e Lorenzo mentre si fanno una bella partita di Fortnite online e si lasciano scappare nella chat comune, dove parlano dei colleghi tennisti che li hanno preceduti, un commento ricco di like del tipo “rimbambiti”!

    Ricapitolando. Non è più facile, ma è più difficile

    Ecco, quindi, che siamo arrivati al nocciolo della questione. Non è che i giovani (tennisti) d’oggi non hanno più impegni dei loro predecessori, è che sono quegli impegni a essere cambiati. E per gestirli, ci vuole molto più impegno. Inseguiti da regole che li incentivano a giocare anche da infortunati, braccati da avversari sempre più preparati e che rosicchiano ogni vantaggio competitivo, i nuovi top player finiscono per forza di cose a essere delle “macchine da ranking” come evidenziato da Casper Ruud, uno dei più intelligenti in circolazione, secondo me. Costretti a giocare oltre la fatica e l’usura del corpo, perché il sistema non contempla vuoti pianificati o pause strategiche.

    Risultato, il calendario non è più vissuto come una scelta, ma come un dovere fisico. Per non parlare dei Social, capitolo che apro con la cautela di un pompiere davanti all’ingresso di una cartiera in fiamme. Pete Sampras ha detto che, se ai suoi tempi ci fossero stati i Social, non avrebbe vinto neanche uno Slam. Troppa pressione, troppe aspettative, troppo odio intorno a ragazzi di vent’anni.

    E così, preferisco riporre calcolatrici e almanacchi per tornare a guardarmi una bella partita su Supertennis, senza pensare a chi vince o chi perde. In fondo, non dovremmo fare tutti così?

    YCBS-Paolo Porrati

    You cannot be serious è la nuova rubrica settimanale di Tennistalker Magazine dedicata a tutto ciò che nel tennis non rimbalza ma … fa rumore lo stesso! A cura di Paolo Porrati: accanito “quarta categoria”, è stato Giudice Arbitro per la FITP e ha partecipato da spettatore a tutti gli Slam, Finals Davis e Olimpiadi. Il suo romanzo giallo “Lo Sport del Diavolo”, pubblicato da Laurana Editore e ambientato nel mondo del tennis, è stata la sorpresa letteraria sportiva dello scorso anno.

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