Binaghi e Mezzaroma hanno presentato il nuovo progetto di espansione del Foro Italico, ma qualche complicazione per guadagnare lo status di Major resterebbe, considerate le minacce californiane
Dunque il site degli Internazionali verrà ampliato, ammodernato, lucidato. Angelo Binaghi, leader maximo FITP e Marco Mezzaroma, presidente di Sport & Salute – la società statale che si occupa dello sviluppo dello sport in Italia – hanno illustrato il nuovo progetto per il Foro Italico giusto ieri, durante una scoppiettante conferenza stampa: capienza doppia, settemila seggiole in più e persino tre campi dentro allo Stadio dei Marmi, quello dedicato alla memoria del grande Pietro Mennea.
A margine della presentazione, tra un frizzo, un lazzo e un cotillon, non poteva mancare la risposta alla domanda delle domande, che da mesi, forse anni, incombe ogniqualvolta, scavalcata la notte di San Silvestro, la sagoma del Foro compare seppur sfocata in lontananza cominciando a lasciar assaporare una nuova edizione degli Internazionali: Roma ospiterà il quinto Slam? Non lo farà? E se lo farà, quando e come?
Ieri, il presidentissimo ha affermato che di fare da gregari al calcio e ai quattro Major classici insomma la Federazione ne avrebbe anche le tasche piene, e che, proprio come Sinner, Roma punta alle vette del tennis mondiale. “Non bisogna affrettare i tempi,” ha però aggiunto Binaghi, lasciando intendere che l’entusiasmo può essere cattivo consigliere. Ogni cosa a suo tempo, insomma, ma non si è ancora ben capito se il fatto che la nomina ufficiale da parte del concistoro dell’ITF sia un miraggio non stia bene un po’ a tutti.
Quinto Slam
Faccenda intricata, golosa, dibattutissima. Tutti lo vogliano, nessuno lo piglia, ma quasi tutti gli impresari dei Master 1000 ci hanno provato. A oggi, oramai, quelli spalmati su dieci giorni sono la metà, anzi, diciamo la metà proprio, visto che Montecarlo non entra nel conto. Più simile a un 500 de facto, il classico torneo del Principato non può ambire al salto a causa delle caratteristiche orografiche della rocca dov’è inerpicato, e anzi più volte, nel corso degli anni, ha dovuto schivare gli attacchi di chi avrebbe voluto declassarlo. Per cosa poi? Facessero pure, nel caso: al Country vantano una qualità non acquistabile, forse più che una qualità una condizione: la noblesse héréditaire. I giocatori, persino quelli di oggi, lo riconoscono, e presumo andrebbero in Côte anche se l’evento venisse per decreto degradato a Challenger 125.
Una dequalificazione, per carità non così perentoria, l’hanno rischiata pure gli stessi Internazionali ormai quasi vent’anni fa, quando l’ATP pretese dai vertici romani l’ammodernamento del complesso del Foro: restyling o ciccia, riposizionamento nella griglia delle categorie. E allora venne smantellato l’ex campo centrale e se ne costruì uno nuovo, non senza intricatissime ma irresistibili complicazioni burocratiche che portarono la giunta Alemanno a bloccare i lavori, giusto in tempo per far slittare i tempi di consegna e impedire alla nuovissima opera di essere teatro dei mondiali capitolini di nuoto del 2009, che pure avrebbe dovuto ospitare.
Concluso il travagliato iter, Roma da allora può vantare un impianto in vetro-acciaio da 10.500 posti, spalleggiato dalla Grand Stand già Supertennis e Next Gen Arena, sorta nel 2012 sulle ceneri dell’ex Campo numero 10 con una capienza ampliata fino ai 6500 posti odierni dopo varie modifiche strutturali, e soprattutto dall’ex Stadio della Pallacorda dedicato a Nicola Pietrangeli, forse l’impianto tennistico più suggestivo al mondo con le sue diciotto statue rappresentanti eroi olimpionici realizzate dagli scultori Eugenio Baroni e Domenico Ponzi.
La concorrenza
Suggestivo, sì, bello tutto, ma basterà a scongiurare le ambizioni della molteplice concorrenza? In realtà, l’avversario principale sembra avere tutte le sembianze del torneo oggetto delle cronache di questi giorni, quello di Indian Wells. Già inaugurato con un piano ambiziosetto anche considerati i 77 milioni di dollari scuciti per attrezzare l’area nel 2000, il Giardino del Tennis nel deserto di Palm Springs è decollato quando, nel dicembre del 2009, Larry Ellison, il potentissimo CEO di Oracle, ha deciso di farsi il regaluccio: una sciocchezzuola. Da allora, un’aggiunta, un abbellimento, una miglioria ogni anno. Tralasciando i dettagli, in California ci si siede in un impianto principale da posti 16.000 – il secondo più grande del mondo dopo quello dedicato ad Arthur Ashe – e in un campetto gregario da più di ottomila seggiolini. In totale, fanno 29 courts di cui 23 dotati di impianto d’illuminazione, infiocchettati da una serie di facilities utili a rendere migliore la vita di tennisti e tifosi che fanno del complesso un gioiello al momento non superabile: mica per niente lo chiamano Tennis Paradise.
Il calendario
Inoltre, svantaggio non da poco nella corsa alla nomina di quinto Slam – definizione peraltro insidiosa, se consideriamo che la moltitudine di personaggi autoproclamatisi “quinto Beatle”, o da terzi insigniti della qualifica, ha vissuto di gloria effimera e spesso non è finita benissimo – ci sarebbe la collocazione temporale. Banale, direte voi, ma la considerazione sembra difficile da trascurare: Indian Wells si gioca a partire dalla seconda settimana di marzo, non esattamente a metà strada, ma quasi, tra i primi due Slam stagionali. Tra Roma e Parigi, ci sono invece un paio di settimane scarse, che tendono a volare. Pochino, per preparare due Major. Mi direte: anche tra Cincinnati e lo US Open passano quattordici giorni mal contati. Non mi pare però che in Ohio ambiscano a un cambio di ceto.
Il quinto slam come il sabato del villaggio?
Converrebbe forse allora continuare a far sì che il Quinto Slam mantenga l’attuale status di meta, di obiettivo, di speranza, profondendo ogni sforzo perché il progetto non arrivi mai a realizzazione, così da continuare a coccolarlo, lustrarlo ed esibirlo per poi riporlo in soffitta non appena qualcuno volesse metterci le mani sopra? L’attesa dell’evento conforta e dà maggiori soddisfazioni dell’evento medesimo, che tende a essere inquinato dalla realtà e nello specifico da burocrati, vidimatori, appalti, ispettori, costrizioni temporali, comitati di quartiere, opposizioni consiliari, commissioni comunali. E allora, nel sabato del villaggio degli Internazionali, ci viene da pensare al Bartlebooth di Perec, che volle da zero imparare l’arte dell’acquerello, girò il mondo per vent’anni insieme al domestico Smautf dipingendo centinaia di marine e le mandò tutte al falegname Winckler che ne face dei puzzle; puzzle che, al ritorno, Bartlebooth ricompose solo per distruggerli o farli distruggere nel medesimo luogo dove erano stati dipinti. A volte l’immaginazione basta a rendere soddisfacente una vita.