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    Ma questo è tennis?

    Ma questo è tennis?

    “La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce, questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine.”Diceva il filosofo francese Jean Paul Sartre. Del resto, se la cultura si fonda attraverso il sapere, l’ignoranza si alimenta sulla base delle opinioni. Ovviamente, in democrazia chiunque può esprimere i propri pensieri. Resta però un fatto: per esprimere opinioni non occorre il sapere, né possedere competenze. Questa dinamica risulta essere la “parte grottesca della democrazia”, affermava il compianto professor Umberto Eco. Quanto illustrato, potrebbe a suo modo fotografare la rappresentazione generale oggi presente nelle più variegate diffusioni mediatiche. La vicenda tennistica australiana, con attore protagonista Novak Djokovic, non poteva certo sfuggire all’attenzione, e quindi essere trasformata in discussione da bar sport, novello derby di Champions League: Pro Vax vs. NoVax. La scenografia della commedia veniva poi rivestita dalle immancabili striscianti opportunità politico economiche, compendiata da complici e attrattivi manifesti mediatici volti a catturare l’audience dentro un orgia caotica; onnipresente caricatura dell’architettura del nostro tempo. Il tennis e l’arte del gioco, la sua storia e i suoi campioni, le grandi sfide e gli Australian Open, sono diventati improvvisamente aspetti secondari. Penso, invece, come questi favolosi registri debbano sempre occupare la scena principale, almeno sul proprio palcoscenico. Per cui, quale miglior modo per iniziare una narrazione se non quella attraverso la quale si effonde una storia affascinante?

    L’Australia e il tennis

    Il brevetto del Maggiore dell’esercito britannico Walter Clopton Wingfield, inventore del Lawn tennis, dopo la prima edizione di Wimbledon 1877 arrivava nel continente australe. Così, nel 1879 nascevano i Victorian Open Grass Court Championships, ospitati presso il Melbourne Cricket Ground Lawn Tennis Club. Il primo vincitore A. F. Robinson inaugurava, a sua insaputa, una delle più grandi tradizioni planetarie del teatro dei gesti bianchi. Nel 1905, da una costola dei VIctorian Championships sorgevano i Campionati Internazionali d’Australia, oggi noti come Australian Open. In quei primi anni l’evento cambiava diverse sedi toccando addirittura la Nuova Zelanda. Due paesi che all’epoca gareggiavano in punta di racchetta sotto l’egida dell’Australasia, e il fatto occorreva fino al 1922. Eppure, proprio nei primi quindici anni del Novecento la squadra “australasiana” comprendeva due formidabili tennisti: il neozelandese Anthony Wilding e l’australiano Norman Everard Brookes.

    La racchetta del diavolo

    Molti forse ignorano come “Tony” Wilding, oltre alle diverse vittorie a Wimbledon e in Coppa Davis, risulti ancor oggi il giocatore con la miglior percentuale di partite vinte nell’intera storia del tennis: 637 vittorie e 57 sconfitte che determinano un impressionante 91,77%. Il neozelandese era già un tennista globale perché durante la stagione si esibiva non solo nel continente oceanico, ma bensì in Asia, in Europa e in America. Norman Everard Brookes, invece, era mancino. Un aspetto sorprendente per l’epoca in grado di sconvolgere l’universale. Primo non britannico capace di violare la virtù di Wimbledon nel 1907, vinceva ulteriormente quell’anno anche la Coppa Davis, strappandola dalle mani inglesi e americane. Il genio di Brookes era assoluto, prevedeva il gioco avversario. In altre parole,  giocava con due colpi in testa in anticipo rispetto alle intenzioni del suo malcapitato rivale. “The Wizard”, il mago, era il suo soprannome coniato dal Leonardo del tennis: l’americano William Tatem Tilden. Così Norman Brookes, la racchetta mancina del diavolo, diveniva una icona del tennis australe. Ricopriva la carica di presidente della federazione australiana fino a dopo la seconda guerra mondiale. A lui è intitolato il trofeo del singolare maschile, oggetto puntualmente consegnato annualmente nelle mani del vincitore degli Australian Open. Eppure, prima di lasciare questo mondo, Brookes riusciva a vedere il suo naturale erede, un altro straordinario mancino dal tennis a tutto campo: il meraviglioso Rod Laver. Unico campione della storia in grado di vincere per due volte il Grande Slam, nel 1962 e nel 1969. Il primo grande fuoriclasse interprete di un tennis con un importante ausilio del polso, malgrado le difficoltà degli attrezzi della sua epoca.

    La filosofia di un’arte chiamata tennis

    Oltre a questi due favolosi campioni mancini, l’Australia produceva altri fenomeni capaci di record formidabili. Jack Crawford era la prima racchetta a sfiorare il grande Slam nel 1933 mancando solo l’ultima partita, la finale ai Campionati Americani oggi US Open. Nel 1956, lo stesso destino di Jack accompagnava il tennis potente e d’attacco del connazionale Lew Hoad. Eppure durante quell’anno il grande Lew, oltre al singolare, vinceva tre prove dello Slam anche nel doppio con l’inseparabile compagno Ken Rosewall. Ed è proprio il mitico Ken a stabilire un altro incredibile record, quello di aver vinto il primo e l’ultimo titolo Slam (1953-1972) a distanza di diciannove anni l’uno dall’altro. Un fenomeno impossibile quello di Rosewall perché nessuno mai è partito da così poco: senza stazza, cilindrata, ne colpi vincenti, per arrivare così in alto nel tennis come Rosewall alias “MuroDiRose”, secondo una magistrale definizione di Gianni Clerici. Dimostrava in tal modo, attraverso un cervello tennistico unico, la sua immensa filosofia in cui la mente è il fattore prevalente del gioco.

    La scuola australiana

    Nella specialità del doppio erano ancora gli australiani i primi a interpretare un’azione innovativa, in particolare una strategia di contrattacco nel game di risposta. Mi spiego! Quando inglesi e americani rispondevano alla battuta restavano ancorati al fondo campo. Mentre gli oceanici ribattevano al servizio avversario cercando una traiettoria corta e bassa nei piedi del servitore per rubargli la posizione sulla rete, per trovarsi quindi affiancati al compagno nella fase d’attacco. Questa idea debuttava già nei primi anni del Novecento. In questa maniera, la scuola australiana si proponeva come riferimento d’avanguardia. Difatti, è proprio un australiano, il leggendario Harry Hopman il coach più vincente della storia. Il primo a capire l’importanza della preparazione fisica, nonché ideatore dell’allenamento all’australiana: quando due giocatori scambiano contro uno solo. Strada facendo la scuola australe produceva diverse strabilianti coppie di doppio. Specialità ritenuta da Hopman ideale per la formazione completa di un giovane tennista. Tra queste coppie quella composta da Frank Sedgman e Ken McGregor, rimane l’unica ad aver conseguito il Grande Slam in campo maschile. Accadeva nel 1951! Ma se andiamo a vedere quali sono i tennisti con maggiori titoli Slam tra singolare e doppio troviamo altri canguri con la racchetta in mano capaci di un tennis di grande atletismo: Roy Emerson con 28 titoli e John Newcombe con 26. Eppure, a livello globale, la racchetta con il maggior record in questo scenario è una donna. Guarda caso un’australiana: Margaret Smith, poi signora Court, con 64 prove dello Slam. La Court detiene ancor oggi il primato di corone Slam nel singolare femminile con 24 titoli. Tra questi spicca il Grande Slam conquistato nel 1970.

    Campioni australi quasi astrali

    In queste brevi righe appaiono solo le stelle più luminose del tennis australiano, un movimento capace di produrre altri formidabili campioni come il polipo John Bromwich. Negli anni Trenta e Quaranta giocava sia da mancino che da destrorso, con un tentacolare rovescio a due mani. Possibilmente, Bromwich progettava il tennis del campione del futuro, quello che verrà! Così, strepitosi campioni degli anni Cinquanta come Mervyn Rose e Ashley Cooper, per poi passare agli anni Sessanta con Neale Fraser, Fred Stolle e Tony Roche, illuminavano il tennis mondiale. L’elenco di maestosi fuoriclasse si alimentava negli anni Settanta grazie alla classe cristallina dell’aborigena Evonne Golagong, mentre negli Ottanta risaltava il gioco felino dell’amico Pat Cash. Ovviamente, non posso dimenticare altri numeri uno come il mastino Leyton Hewitt e l’acrobata della rete Pat Rafter, entrambi beniamini del più grande maestro che, seppur immeritatamente, io abbia mai avuto. Sto parlando del leggendario baffo d’Australia: il mitico John Newcombe. 

    Australian Open 2022

    Questa, in estrema sintesi, è la storia del tennis australiano. Un’avventura in grado di avvicinare il continente oceanico al resto del mondo. Una eredità importante, un tesoro culturale che necessita di cure competenti da parte degli addetti ai lavori, come del resto la secolare disciplina del tennis. Un auspicio più che un monito nella speranza che la recente vicenda mercantile della Coppa Davis non faccia scuola. Eppure, gli Australian Open 2022 rischiano di passare alla storia come l’edizione più travagliata sotto il profilo politico-organizzativo, forse perché fin troppo schiacciata dagli interessi economici. La soluzione di questo penoso impiccio resta, a mio avviso, come sempre appesa al filo dell’arte del gioco, il momento nel quale iniziano a parlare sul campo le grandi racchette. Per cui, Naomi Osaka, la campionessa giapponese in carica dovrà difendere il titolo dall’assalto delle rivali. Tra queste l’australiana Ashleigh Barty, prima testa di serie e numero uno mondiale anche se non proprio del rango delle connazionali Court e Goolagong. In campo maschile, invece, penso come il favore del pronostico sia da attribuire al russo Daniil Medvedev, a suo modo novello John Bromvich per il suo tennis tentacolare. Di seguito, pongo l’attenzione sul tedesco Alexander Zverev, dal gioco poderoso alla Lew Hoad anche se interpretato prevalentemente di rimbalzo. Sinceramente, non credo proprio che i campioni diradati della vecchia guardia possano ancora spuntarla, anche se darli per spacciati anzitempo  rischia spesso di rivelarsi un effetto boomerang. Infine, sono attesi interessanti exploit da parte dei giovani tennisti canadesi, dall’americano Fritz, dal  ceco Korda, dal mancino francese Humbert, dal  ciclonico spagnolo Alcaraz e perché no, anche da qualche racchetta azzurra. 

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