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    Esibizionista!

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    Le manifestazioni a invito sono un male necessario, e qualche volta divertente, oppure un pezzo importante della Storia del Tennis? Dal Six Kings Slams indietro fino a Jack Kramer, alla scoperta di uno Sport che diventa professionista … con un cachet!

    You Cannot Be Serious – A cura di Paolo Porrati

    Al termine dello swing asiatico, Sinner, Alcaraz, Fritz, Zverev, Djokovic e Tsitsipas (in sostituzione di Draper) voleranno a Riyadh per giocare il Six Kings Slam, la lussuosa esibizione a inviti con sei big del tennis mondiale, selezionati per successi Slam e prestigio. È la punta di diamante, il caso di dire, di un fenomeno che attrae molti giocatori e… qualche spettatore: le esibizioni. Cerchiamo di saperne un po’ di più.

    Tanta voglia di … esibirsi

    Il torneo non assegna punti ATP, essendo un evento non ufficiale, e a ogni partecipante è garantita una quota minima di partecipazione di un milione e mezzo di dollari, con un premio straordinario per il vincitore; nel 2024 Jannik Sinner vinse “il premio più grande nella storia del tennis” con 6 milioni di USD, e le cifre di quest’anno si aggireranno sugli stessi livelli. L’evento dura quattro giorni con un giorno di riposo obbligato (per evitare tre giorni consecutivi di gioco) e si gioca su superfice dure indoor presso l’ANB Arena, un impianto da ottomila posti. Televisivamente parlando, i diritti per la trasmissione globale sono passati a Netflix, che subentra a DAZN.

    La sorella maggiore, solo per diritto di nascita, del SKS è la Laver Cup, una competizione a squadre maschile di tennis, ideata da Roger Federer e dalla sua agenzia Team8 nel 2017, intitolata alla leggenda australiana Rod Laver e ispirata neanche troppo nascostamente alla Ryder Cup di golf. Della quale mutua parte dei meccanismi. Si disputa ogni anno, pochi giorni dopo gli US Open, e mette in competizione Team Europe e Team World su tre giorni, con singolari e doppi: ogni giornata assegna punti crescenti (1 il primo giorno, 2 il secondo, 3 il terzo) e vince la squadra che raggiunge per prima i tredici punti. Non attribuisce punti ATP, ma è diventata un appuntamento prestigioso per l’atmosfera unica e lo spettacolo garantito dal coinvolgimento dei migliori giocatori del mondo. La manifestazione è ricordata per momenti iconici, come Federer e Nadal che giocano il doppio insieme (2017 e 2022), e l’ultima partita della carriera di Federer, in doppio con Nadal. I giocatori del Team Europe e del Team World ricevono un compenso fisso di circa 250.000 dollari ciascuno per la partecipazione, cui si aggiungono il rimborso delle spese di viaggio e l’ospitalità di lusso per sé e il proprio staff. Nulla di paragonabile ai fasti della manifestazione negli EAU, tuttavia i guadagni indiretti (sponsor, visibilità, premi collegati) sono spesso anche più significativi, dato che l’evento ha una copertura mediatica mondiale.

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    E non finisce qui. Sebbene si discuta, e lo abbiamo fatto anche noi in un precedente articolo, del sovraffollamento di tornei nel calendario agonistico, per le esibizioni lo spazio lo si trova sempre. Così, a fianco delle due manifestazioni non competitive monstre – dal punto di vista dei premi – delle quali abbiamo appena parlato, se ne sono aggiunte altre nel corso degli anni come la Diriyah Tennis Cup, esibizione maschile con inviti a top players in preseason in Arabia, il Mubadala World Tennis Championship di Abu Dhabi con star maschili e femminili come la Sharapova, il Kooyong Classic di Melbourne, e la meno nota The Boodles Tennis Challenge di Stoke Park, UK, esibizione sull’erba prima di Wimbledon. E se dal classico vogliamo passare al moderno, possiamo citare il Tie Break Tens, format itinerante di minitornei di un solo tie-break a dieci punti, e l’Ultimate Tennis Showdown (UTS), ideato da Patrick Mouratoglou con regole rivoluzionate: set brevi, cronometro, carte speciali per dare svantaggi e bonus.

    Esibirsi fa bene al tennis, e ai giocatori?

    Molte opportunità, molti guadagni, talvolta anche bel gioco, ma mai competizione vera. Ed è questo il dilemma dei giocatori, quando si tratta di esibizioni. Il cachet vale lo sforzo? Si dice che uno dei motivi di attrito fra Sinner e Piatti fu proprio il modo di intendere l’impegno delle esibizioni nella fase post Australian Open. Da un lato, il coach spingeva per impegnarsi nella preparazione fisica che costituiva la base del successo nel resto della stagione, come avvenuto in precedenza con altri campioni della stessa scuderia come Milos Raonic. Dall’altro invece, la nuova generazione di tennisti che vede – anche giustamente – le cose in modo diverso e preferisce partecipare ad eventi ben remunerati e di rilevanza mondiale per dosare la preparazione fisica in altri modi, più distribuiti nell’anno. Filosofie diverse con la seconda che ha però ormai preso il sopravvento. Gli spettatori invece sono più prosaici, e si dividono fra la divertita simpatia per la Laver Cup (con attenzione decrescente, stando ai risultati economici dichiarati) e la perplessità del Six King Slam. E quindi, come vanno considerate queste bizzarre manifestazioni incastrate fra i tornei che contano e quelli che contribuiscono a irrobustire lo zainetto dei punti? Con rispetto, vanno considerate con grande rispetto, perché è anche – se non soprattutto – per merito loro che il tennis è diventato il meraviglioso spettacolo che è oggi.

    La Grande Depressione, dei primi top players

    Prima del 1968 il tennis internazionale viveva una rigida separazione tra giocatori dilettanti e professionisti. I primi erano ammessi ai tornei del Grande Slam e alla Coppa Davis ma non percepivano compensi, se non sottobanco e/o in forma di rimborso, i secondi venivano remunerati per giocare e proprio per questo non potevano giocare i tornei più importanti, riservati ai dilettanti. Come conseguenza, per i giocatori più forti, il passaggio al professionismo era quasi obbligato: i compensi “ufficiali” erano minimi e i tornei pochi, mentre le esibizioni erano parecchie e garantivano introiti molto più alti.

    Negli anni ’40 e ’50 il cuore dell’attività “pro” erano le tournée di esibizione, spesso organizzate da promoter come Jack Kramer, egli stesso campione diventato poi manager. Questi eventi, impensabili ai giorni nostri, consistevano in delle serie di incontri uno-contro-uno: due campioni si sfidavano in un lungo tour, composto anche di 80-100 partite sempre con lo stesso avversario, viaggiando da una città all’altra, spesso negli Stati Uniti o in Europa. Gli incassi derivavano dai biglietti e venivano divisi tra i giocatori e l’organizzatore. E avevano successo, con grande partecipazione di pubblico, ma considerati “fuori dal tennis ufficiale”. I grandi campioni dilettanti che lasciavano l’amatore per il professionismo venivano subito lanciati in tournée: celebre quella tra Bobby Riggs e Don Budge (1946), seguita da quella Riggs contro Jack Kramer (1947). Erano dei veri e propri spettacoli viaggianti, che duravano una stagione e si svolgevano in posti anche difficilmente raggiungibili, non di rado con partite disputate su campi smontabili, posati su superfici improbabili come il ghiaccio delle arene di Hockey. Ma erano anche, nei fatti, l’unico modo per decidere chi fosse davvero il giocatore più forte del mondo in quel momento. Cosa importante, il nome Tour dell’attuale circuito professionistico viene proprio da qui, da questo modo romantico e pazzesco di portare il Tennis in giro per il mondo.

    L’era Open e le Esibizioni moderne

    L’assenza dai tornei ufficiali creava una frattura nel tennis: i record Slam appartenevano ai dilettanti, mentre i veri campioni spesso erano esclusi. Questa contraddizione divenne sempre più evidente negli anni ’50, fino a portare alla pressione che sfociò nell’Era Open del 1968. I dilettanti e i professionisti poterono giocare insieme, e gli Slam tornarono ad avere i migliori giocatori del mondo. Le esibizioni persero la funzione “ufficiale” di consacrare i numeri uno ma rimasero fondamentali per tre motivi: l’aspetto economico, con cachet milionari, spesso superiori ai premi ufficiali dei tornei, quello spettacolare di portare il tennis in città e paesi senza tornei ATP/WTA e quello politico dovuto alla competizione tra circuiti non ancora unificati (ATP, WCT, ITF). Fra le centinaia di eventi si ricordano come memorabili il World Championship Tennis (WCT) del 1970–73 con Laver, Rosewall, Newcombe e Ashe, la serie Borg vs Vilas del 1977-78, con numerosi match-esibizione in Sudamerica e in Europa, cavalcando la rivalità terra/erba, e il “Tokyo Super Challenge” di Becker, Edberg, Wilander del 1988, esibizione indoor in Asia, modello di quello che poi diventeranno i Master 1000 asiatici di questi giorni.

    Negli anni Novanta le Esibizioni perdono il loro fascino per un insieme di cause come un calendario ufficiale più fitto, prize money in aumento e unificazione del circuito ufficiale. Ma qualche show sopravvive, come il “Pete Sampras vs Andre Agassi” promotional tour, in Asia o USA a fine stagione. Negli anni 2000 il numero di esibizioni torna ad aumentare, anche se con finalità diverse: espansione globale, con il tennis cerca nuovi mercati (Asia, Medio Oriente, Australia), marketing, con i top player che usano le esibizioni come palcoscenico commerciale, e sponsor fortissimi; audience, con format innovativi e regole più brevi e spettacolari pensate per tv e sponsor. Ma senza abbandonare la cara vecchia sfida fra Leoni, come il tour “Sampras vs Federer” (2007, Asia), tournée celebrativa della staffetta generazionale.

    Conclusione: esibizionismo sì, ma con giudizio!

    Il tennis moderno, come abbiamo visto, deve molto alle manifestazioni non competitive. Che sono sempre state gradite ai giocatori e al pubblico, e che hanno dimostrato di sapersi adattare a cambiamenti sociali, organizzativi e di gusto nel corso degli ultimi ottant’anni. Essere esibizionisti, nel tennis, non è necessariamente un male, anzi rischia di essere un pregio non trascurabile. Da godersi rimanendo rigorosamente vestiti.

    YCBS-Paolo Porrati


    You cannot be serious è la nuova rubrica settimanale di Tennistalker Magazine dedicata a tutto ciò che nel tennis non rimbalza ma … fa rumore lo stesso! A cura di Paolo Porrati: accanito “quarta categoria”, è stato Giudice Arbitro per la FITP e ha partecipato da spettatore a tutti gli Slam, Finals Davis e Olimpiadi. Il suo romanzo giallo “Lo Sport del Diavolo”, pubblicato da Laurana Editore e ambientato nel mondo del tennis, è stata la sorpresa letteraria sportiva dello scorso anno.

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