Sinner e Alcaraz, tra record e rituali: a Cincinnati il tennis mondiale si riduce a due soli protagonisti, come sempre
Il torneo di Cincinnati, osservato con occhio freddamente critico, si conferma un rito che si ripete incessantemente. Tabelloni affollati di nomi promettenti e outsider in cerca di gloria: tutto molto bello, eppure alla resa dei conti, restano solo loro due. È un tacito patto tra ventenni discretamente diversi tra loro: da un lato il ragazzo venuto dalle Alpi, dall’altro il figlio del Mediterraneo. Jannik Sinner e Carlos Alcaraz sono divenuti qualcosa di più di una rivalità: un fatto collettivo inevitabile.
In semifinale, Alcaraz ha archiviato Zverev con un netto 6-4 6-3 in un’ora e quarantacinque, conquistando la sua settima finale consecutiva; dato che lo colloca accanto a Murray nella specifica graduatoria, ivi superato solo da Federer, Djokovic, Nadal e dallo stesso Sinner. A soli ventidue anni e tre mesi, Carlitos è il terzo ragazzo più giovane a raggiungere nove finali in un Masters 1000, dietro solo a Nadal e a Djokovic. Complessivamente, quella che si giocherà stasera a Mason, Ohio, sarà la sua ventinovesima finale a livello di Tour maggiore: a inizio carriera ci si poteva aspettare anche di peggio.
Sinner, dal canto suo, ha celebrato il ventiquattresimo compleanno battendo il genietto Terence Atmane in un’ora e ventisei, e ricevendo come regalo presumiamo gradito l’ennesima finale. Con la vittoria di ieri il kid di Sesto Pusteria ha centrato la duecentesima sul cemento, estendendo a ventisei la sua serie di successi consecutivi on hard courts. Oggi il numero uno del mondo disputerà la ventottesima finale ATP, l’ottava in un Masters 1000.
Lo storico dei confronti diretti è ormai familiare: quello imminente sarà il quattordicesimo, con Alcaraz avanti per otto vittorie a cinque. Sulla stessa superficie del Cincinnati Open – quella che stasera deciderà il titolo – lo spagnolo conduce per quattro a due, ma i numeri da soli, per loro stessa natura, non prendono in considerazione ciò che non si può computare: il segreto di Sinner è una costanza quasi militare, mentre Alcaraz spadroneggia nei momenti in cui la pressione cresce. La loro supremazia emerge nettamente: finale nei grandi eventi, ogni volta.
Non è una novità che il tennis moderno – specialmente nei Masters 1000 – segua questa dualità. Il passato ci ha riservato duelli leggendari: Borg-McEnroe, Sampras-Agassi, Federer-Nadal, pescando fior da fiore. Ma oggi la geografia sembra essersi ristretta: due stili, due storie, un duello che si rinnova e basta, con sempre meno spazio per i comprimari.
Alcaraz è l’estro selvaggio, il ritmo improvviso, l’imprevedibile che strappa applausi. Sinner è il rigore controllato, la progressione incessante, l’arte della pazienza. Festina lente, “fa’ presto, ma con calma”, e la frase sembra cucita addosso a lui.
Paradossalmente, proprio la tensione competitiva più alta genera il copione più ripetuto. Cincinnati dovrebbe essere teatro di sorprese e scintille inattese, e invece diventa il palco dove i giganti recitano sempre lo stesso finale. Il resto del cast scivola via, mentre loro restano, con le luci puntate addosso. Proprio come nei drammi antichi: cori e comparse al loro posto, ma gli eroi restano gli eroi.
E allora si arriva a questa finale, che, pur essendo “solo” un Masters 1000 estivo, assume la dignità di un nuovo capitolo epico. Siamo davanti a due modelli opposti e complementari: perfetti per sorreggere una sceneggiatura adatta al mainstream; gli appassionati del sottobosco volgano lo sguardo altrove.
“Mutato nomine, de te fabula narratur”: Sinner e Alcaraz, in rigoroso ordine di apparizione classifica, possono fingere il contrario, ostentare modestia, esaltare le straordinarie dote dei colleghi, ma la favola parla sempre di loro. Un finale che è insieme straordinario e scontato. Lo spettacolo migliore – ma sempre lo stesso – firmato da chi, nel tennis di oggi, continua a giocare da solo.