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    Laver, Mc Enroe, Nadal e Berrettini: il grande tennis di Sergio Tacchini

    A 83 anni gioca ancora almeno una o due volte la settimana «contro un ragazzino di poco meno di 70 che disputa il senior Tour. E mi diverto ancora moltissimo. Del resto, com’è possibile fare a meno del tennis?».

    Sergio Tacchini è entrato nella storia delle racchette non solo per i cinque titoli nel doppio e la finale di Davis, ma per avere rivoluzionato l’ambiente, prima colorando un mondo tutto in white, poi con l’ingresso dei testimonial. Se oggi il tennis è un meccanismo professionistico di precisione una buona parte del merito ce l’ha il tennista-imprenditore di Novara che in campo ha portato la moda.

    Quanto è alta ancora la febbre da racchetta?

    «Altissima. Non c’è settimana che non giochi almeno una partita, quando è possibile due. Purtroppo, a causa di un intervento chirurgico ho avuto una sosta forzata di quattro mesi, ma sto riprendendo. Il tennis mi piace, sia praticarlo che guardarlo».

    Tennis e tivù; è un binomio che funziona o è solo un matrimonio di convenienza?

    «Per la diffusione e la popolarità di questo e di tutti gli altri sport la televisione è essenziale. Nel caso specifico del tennis i miglioramenti tecnici delle riprese sono stati enormi; oggi la televisione riesce a trasmettere lo spettacolo e le sue emozioni, quindi diverte, appassiona e moltiplica gli appassionati».

    Per il tennis italiano si profila un altro anno d’oro: come valuta i nostri top?

    «Berrettini è un grande giocatore sul veloce; Sinner è molto bravo anche sulla terra. Mi sembra particolarmente interessante Musetti perché sta crescendo veramente bene e credo che vada seguito con attenzione».

    Dei tre chi sceglie?

    «Berrettini, ha personalità, tiene benissimo il campo ed è un giocatore molto corretto. La sua forza, non solo tecnica e fisica, la conferma la capacità che ha avuto di superare momenti molto complicati, che avrebbero messo in crisi altri».

    Dalla trinità italiana a quella internazionale: un giudizio prima da tifoso e poi da tecnico.

    «Sono un nadaliano, perché mi affascina il suo modo di giocare, la sua mentalità. Federer sta su un altro pianeta per la perfezione, la qualità del gioco; Nadal non ha il suo talento ma ha una condizione mentale e fisica incredibile, che gli hanno permesso una serie di exploit straordinari. Djoko non ha il talento di Federer nè la forza fisica di Nadal, ma supplisce con una preparazione, una volontà e un bagaglio tecnico che lo hanno portato ad essere un fuoriclasse, come gli altri due. Il problema è che questi tre atleti, per motivi anagrafici, sono entrati nella parabola discendente». 

    A proposito di Djoko e la polemica sui vaccini, lo promuove o lo boccia?

    «Se c’è una regola deve valere per tutti: può anche crearti disagio, ma è giusto adattarsi e seguirla. Infatti poi ha pagato un prezzo per questa vicenda, perché le soste forzate a questi livelli non sono facili da superare».

    Torniamo agli anni Sessanta, quando Tacchini vinceva titoli e coppe: chi è stato il più grande che ha incontrato?

    «Il più grande di sempre, Laver. Aveva tutto, poteva giocare anche su un tavolo da ping pong e avrebbe fatto meraviglie».

    Un ricordo personale di Laver…

    «Torneo di Amburgo, che oggi sarebbe classificato tra i 1000, perché partecipavano tutti i campioni. Mi tocca come avversario proprio Rod, una battaglia di quasi quattro ore. Al terzo set siamo 5 pari e io covo il sogno di fare l’impresa, poi lui serve e va sul 6-5. Tocca a me il servizio e mi gioco il tutto per tutto, ma accade qualcosa che lì per lì non capisco: mentre sto per servire lo vedo che compie un movimento con la racchetta dall’alto verso il basso; servo e dall’altra parte arriva un missile imprendibile, e in cinque minuti perdo una battaglia durata quattro ore. Cos’era successo? Quel movimento era il modo con cui Laver trovava il massimo della concentrazione, della precisione e della potenza, e non ce n’era per nessuno».

    Che differenza c’è tra quel tennis e quello di oggi, tra i campioni anni Sessanta Settanta e i top di millenials e boomers?

    «Il paragone è improponibile, non si possono fare confronti. Il motivo è molto semplice, sono due tennis totalmente diversi: sono cambiate le attrezzature, le racchette di oggi non hanno nulla a che spartire con quelle con cui giocavamo noi, sono cambiate le superfici di gioco, le preparazioni, gli allenamenti».

    Lei ha cambiato il colore del tennis, da bianco al technicolor: come è nata l’idea?

    «Ho pensato che le divise colorate sarebbero state più divertenti, avrebbero stimolato l’inventiva e la fantasia degli stilisti e degli imprenditori e avrebbero dato anche maggiore visibilità a questo sport. Abbiamo iniziato con quattro colori, l’idea ha funzionato e da lì è iniziata una piccola, grande rivoluzione per il tennis, un pò come stava accadendo nella società per i movimenti del ‘68».

    Quale reazione ebbero i suoi primi campioni testimonial, in particolare Mc Enroe?

    «Gli propongo di provare calzoncini e polo di quella che sarebbe poi stato uno dei modelli di maggiore successo, la Young Line, lui prova e mi dice “Ma questo è un costume da bagno, perché non c’è una cintura a chiuderlo, ma un filo», e io gli rispondo “Non preoccuparti, è una cosa nuova, cambierà una mentalità”, e lui ” se lo dici tu, mi fido, vuol dire che funziona”».

    Chi è Mc Enroe?

    «E’ stato uno dei più grandi campioni della storia del tennis, con una personalità incredibile, ma anche una persona autentica, con cui condivido da anni una profonda amicizia. Per parecchio tempo all’inizio di ogni anno le nostre famiglie si trovavano a cena proprio per festeggiare l’anno nuovo, lui non mancava mai, ci teneva. L’ultima volta che è venuto in Italia sono andato a trovarlo con i miei nipoti; li ha visti “sono i tuoi nipoti?”, ed è corso ad abbracciarli e a indicarmi come un esempio da seguire. Mi sono commosso».

    Torniamo al periodo di grande smalto del tennis italiano: che merito ha la federazione in questa crescita?

    «Ha avuto un ruolo importante e ha introdotto due novità che reputo particolarmente positive per la crescita del movimento tennistico: l’aiuto economico ai giovani talenti per prepararli all’ingresso nel mondo del professionismo, che non è per nulla semplice; la creazione di un canale televisivo dedicato al tennis, una bella idea perché certamente concorre ad aumentare il pubblico degli appassionati».  

    Commenti

    1. Ho lavorato 6 anni alla Sergio Tacchini, come responsabile delle sponsorizzazioni. Azienda fantastica, dominante al tempo. Tutti i giocatori volevano giocare ST, poi eravamo noi, Sergio in primis, a decidere quali giocatori prendere. Federer l’abbiamo perso per un pelo, per dire. Del signor Sergio dicevano fosse una persona difficile, invece l’ho visto fare gesti di grande generosità e altruismo, anche verso i dipendenti. Ho imparato tantissimo, poi eravamo un gruppo di persone competentissime, che venivano tutte dal tennis. Un aneddoto : Parigi, 1996, finale Bruguera-Courier. Tacchini è ospite in tribuna d’onore. All’inizio del secondo set arriva Jacques Chirac, presidente della Repubblica. Vede Tacchini, si alza e lo va salutare : Bonjour, Monsieur Tacchinì. Capito? Lui, Chirac, si è alzato per salutarlo! Pazzesco, irripetibile.

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