Il racconto vissuto in prima persona da chi ha sfidato la notte in tenda per conquistare l’ambito ingresso a Wimbledon – tra consigli utili, aneddoti curiosi e un po’ di sana ironia
A cura di: Lorenzo Zantedeschi
Prologo: Il Richiamo di Wimbledon
Non era la mia prima volta a Wimbledon.
Già nel 2023, assieme a Michele, un caro amico, avevo avuto modo di conoscere il funzionamento e le meraviglie dello Slam londinese. Allora, però, le prime due notti le avevamo trascorse in un Airbnb, con sveglie all’alba per essere a Wimbledon Park tra le 6 e le 6:30 e accaparrarci un buon posto in coda. L’ultima notte, invece, avevamo deciso di vivere l’esperienza completa: dormire direttamente al parco in tenda, assaporando al 100% la Queue Experience.
E — spoiler — quella coda è parte intrinseca e fondamentale del torneo stesso.
Dentro di me, sapevo che quella notte in tenda sarebbe stata una sorta di “beta test” per gli anni a venire.
Ed eccomi qui, due anni dopo. Di nuovo a Wimbledon, ma questa volta da solo, per due notti e due giorni effettivi di torneo. Solo io, il mio zaino e la mia tenda. Estremamente curioso di scoprire cosa quei giorni mi avrebbero riservato: le persone che avrei conosciuto, i match che avrei visto, i campi che avrei visitato.
Capitolo 1: L’arrivo e l’incontro con Phil
Parto direttamente da Verona, la mia città natale, direzione London Stansted.
Sarei dovuto arrivare alle 16:30 ora locale, ma ovviamente il volo è in ritardo di un’ora. Non mi faccio troppi problemi, tanto mi basta arrivare a Wimbledon Park prima che tramonti il sole così da semplificare le fasi di montaggio della tenda e di ambientamento.
Dall’aeroporto, tra treni e metro, arrivo alla stazione di Southfields verso le 20:30 e guardando il cielo mi rendo conto di avere addirittura del tempo per poter fare un po’ di spesa al supermercato vicino.
Alle 20:55 ricevo la mia Queue Card, numero 1012.
So che, fino al mattino seguente, questo rettangolo di carta verde sarà l’oggetto più prezioso in mio possesso: senza di esso nessun accesso ai cancelli, nessuna possibilità di acquistare il tanto agognato biglietto. La ripongo con cura nelle tasche con zip dei miei pantaloncini cargo, consapevole del suo inestimabile valore.
Inizio a montare la tenda. Gioco in modalità facile perché ne ho comprata una di quelle autoportanti che si montano letteralmente in qualche decina di secondi. La tiro fuori dalla sacca che la contiene, sgancio un paio di fibbie a scatto e… clic. La tenda, che fino a quel momento era come in catene, si apre. Il gioco è fatto.
A nemmeno due metri da me, sento un: “Wow, respect for that!“.
Era Phil, un signore inglese di 72 anni che, da quel momento in poi, sarebbe diventato il mio primo ‘Queue Friend‘ per i successivi due giorni.
La saggezza di Phil
Mentre Phil finisce di montare la sua tenda io inizio a sistemare le mie cose nella mia. Memore della notte decisamente scomoda di due anni prima, questa volta mi ero organizzato: avevo con me un materassino da campeggio, più spesso e isolante di quelli usati per gli esercizi a casa. Onestamente, ha fatto tutta la differenza del mondo.
Mentre lo penso, mi sento un po’ come chef Bruno Barbieri che elogia il topper perfetto negli hotel di lusso. Ho già preso Phil in simpatia e gli offro una birra come scusa per fare due chiacchiere. Viene da Liverpool, ogni anno si fa almeno 3-5 giorni in tenda, da solo, solamente per l’amore verso il tennis. Phil inizia a snocciolare decine di aneddoti, storie da cui si potrebbe trarre un libro intero. Ha viaggiato ovunque per il tennis: Australia, Parigi, Roma, Barcellona, Madrid, Berlino, Londra e molte altre.
Mi racconta persino che l’anno precedente, qui a Wimbledon, era svenuto sotto il sole durante una partita, con i medici che erano dovuti intervenire e il match interrotto. In quel momento non potevo saperlo, ma Phil stava anticipando il futuro, perché il giorno seguente gli sarebbe capitato qualcosa di simile.
Nonostante l’età e la consapevolezza che queste cose possono accadere, mi narrava tutto con un sorriso contagioso e gli occhi che gli brillavano. Quel luccichio che si vede solo in chi ama profondamente ciò di cui sta parlando.
Sono le 22:30 inoltrate, è ora di andare a dormire. La sveglia all’indomani sarebbe suonata alle 5. Entro nella tenda, mi metto il pigiama, entro nel sacco a pelo e mi sdraio sul materassino. Guardo il soffitto della tenda e penso, elettrizzato, alla giornata successiva. Prima di chiudere gli occhi, come un’epifania, mi fermo un attimo e penso: “Da grande voglio essere Phil”.
Capitolo 2: La prima giornata di tennis
La notte passa rapida e senza eccessivi intoppi. La gente continua ad arrivare anche nelle ore notturne, è un flusso continuo. Qualche rumore ogni tanto si sente, ma nulla che mi impedisca di dormire molto meglio di quanto potessi immaginare. Forse è merito del materassino. O forse della temperatura perfetta: la minima era di 21 gradi.
Ore 05:00. “Wake up! Wake up! Rise and shine!” è il motto degli steward che passano di tenda in tenda per svegliare i campeggiatori. Apro la mia e mi ritrovo davanti uno scenario completamente diverso da quello della sera prima. Mentre dormivo saranno arrivate almeno altre 4000 persone. E man mano che le ore passano, aumentano ancora.
A questo punto esco e vado in bagno, faccio la mia morning routine (nessuna corsa di dieci chilometri né doccia fredda), faccio colazione, saluto Phil e gli altri queuers che hanno voglia di scambiare due parole e inizio a svuotare la tenda per poi smontarla.
Intorno a Wimbledon ci sono vari depositi per i bagagli o, nel mio caso, per il materiale da campeggio. Uno molto grande, il deposito A, è proprio nel parco ed il 90% di quelli che hanno fatto la nottata va lì a depositare tutto e per questo si crea sempre una coda dove si attende fino a un’ora. Anche io due anni fa ero andato in lì.

Phil però, da marinaio navigato, mi rivela che poco prima delle casse c’è il deposito B: più piccolo del principale, ma sempre vuoto e decisamente più comodo. Ci passi davanti obbligatoriamente ogni giorno, sia all’andata che al ritorno. E c’è zero coda. Grande Phil, ottimo consiglio!
Il Queue Village
Dalle 6:00 alle 8:00 semplicemente si chiacchiera, si mangia, si va in bagno e si fa quello che si vuole. La Queue non è una coda nel senso stretto: non è noiosa e non si deve stare immobili ad aspettare. Ci si può persino assentare per una mezz’ora senza conseguenze. L’importante è tenere sempre stretta la Queue Card, è quella che fa fede e certifica la tua posizione.
Verso le 8:00 iniziano le procedure di movimento per spostare le varie file che si sono create dal parco alla zona interna, il cosiddetto “Queue Village“, una sorta di purgatorio dove le anime degli appassionati di tennis attendono tra una bibita analcolica, un caffè — o un cappuccino nel mio caso — e qualche attività dei partner del torneo, prima di entrare nel paradiso del tennis: l’All England Lawn Tennis Club.
Alle 10:00 aprono i cancelli. Finalmente dentro. Qui la mia strada e quella di Phil si separano, convinti di non vederci più. Alla fine le connessioni che avvengono nella coda sono così: profonde perché si ha una forte passione in comune, ma allo stesso tempo decisamente fragili.
Mi dirigo verso il campo 7 a vedermi Iva Jovic, talento americano classe 2007, ancora 17enne, che due settimane prima ha vinto un Challenger a Ilkley battendo avversarie quotate e pochi giorni fa ha infilato tre vittorie di fila alle qualificazioni per garantirsi il main draw nel suo primo Slam su erba dei grandi. Gioca contro l’olandese Lamens. Perde 6-1 6-1.
Nel frattempo ho sudato tre magliette e bevuto tre litri d’acqua. C’è un caldo irreale per Londra e per Wimbledon in particolare. Dalle 11 alle 19 la temperatura non scende mai sotto ai 30 gradi. Decido che è il momento di spostarmi al campo 15 per seguire un’altra giocatrice che mi ero segnato e che da anni volevo vedere giocare su erba: Karolina Muchova. Una delle giocatrici più talentuose e con più variazioni dell’intero circuito, peccato per i parecchi infortuni che troppo spesso l’hanno condizionata.
Prima però vado a rinfrescarmi in uno dei quasi venti bagni presenti nell’impianto — scelgo quello più vicino al campo 15. Ormai conosco la planimetria del circolo come le mie tasche.
Muchova gioca divinamente, pulisce le righe, varia, costruisce. Ha pure parecchi fan venuti direttamente dalla Repubblica Ceca per supportarla, ma sul 5-5 un passaggio a vuoto le costa il break. Ed il set. Da quel momento in poi, l’avversaria Xinyu Wang sale in cattedra e chiude 7-5 6-1. Inizio a pensare che sia io a portare sfiga.
Si sono fatte ormai le 15 inoltrate. Mi arriva un messaggio sul telefono. E’ da parte di Wimbledon: mi avvisano che è arrivato il mio turno per acquistare a prezzo scontato un biglietto per uno dei campi principali (campo centrale, campo 1 e campo 2). Questo perché in mattinata, mentre ero nel Queue Village, mi ero inserito nella coda virtuale per la rivendita dei biglietti.
In sostanza il torneo rimette in vendita, ad una cifra simbolica rispetto a quella “di listino”, i biglietti dei tre campi principali di tutti coloro che lasciano il site anzitempo. All’uscita viene scannerizzato il biglietto e quel posto ritorna disponibile.
Io avevo selezionato il campo 1, così per solo £10 sarei riuscito a vedere l’ultima partita di Petra Kvitova, il britannico Jack Draper ed un bellissimo — doppi falli a parte — Gauff-Yastremska. Arrivo sul campo 1.

Kvitova ha perso, ho visto quindi il suo ultimo incontro a Wimbledon. La sua sconfitta contro Emma Navarro non era una sorpresa, quindi per un attimo penso di non essere io il problema delle sconfitte dei vari tennisti che voglio vedere.
È il momento di Jack Draper: lo stadio è pieno, l’atmosfera è carica e si respira un’aria elettrizzante per il beniamino di casa. Giocherà contro l’argentino Sebastian Baez. Jack va avanti 2 set a 0, poi Baez si ritira. Ricomincio a pensare di essere io il problema.
A questo punto i match in programma sul campo 1 dovrebbero essere terminati, ma siccome sul campo centrale gli incontri stanno andando per le lunghe decidono di spostare l’ultimo match previsto per quel campo, Gauff – Yastremska, su quello dove sono io. Lo annuncia lo speaker poco dopo l’intervista post-match di Draper. C’è un boato generale. Sono tutti contenti, ovviamente. Bonus match sia!
Le due giocatrici entrano in campo. Sapevo non sarebbe stato un match semplice per Gauff, ma in questo caso non avevo una chiara preferenza. Mi bastava assistere ad un bel match. Nel mentre il tetto dello stadio è stato chiuso, le luci sono state accese e l’aria condizionata mi fa tornare sensazioni di frescura che ormai pensavo di aver dimenticato. Le due si prendono a pallate.
Con il tetto chiuso, ogni colpo rimbomba ancora di più. Sembra partano cannonate. Anche il pubblico fa un rumore incredibile. È una bolgia. Vince Yastremska 7-6 6-1. Sorrido e penso che alla fine sono stato fortunato a trovarmi lì.
Capitolo 3: la seconda notte – Il ritorno degli amici
Esco dallo stadio, esco dall’All England Lawn Tennis Club, prendo lo zaino e la tenda al deposito e mi dirigo, di nuovo, a Wimbledon Park per un’altra nottata in coda. Ritiro la mia Queue Card, rosa e numero 1032 stavolta, e monto la tenda.
Bevo la mia tradizionale birra, cerco di farmi nuovi amici. Davanti a me una coppia di messicani che però vivono ad Oxford con cui faccio due chiacchiere ma noto — giustamente — che preferiscono stare tra loro. Un po’ affranto mi guardo intorno e, come un faro nel buio della notte, eccolo là… lo vedo. Una figura alta più di 190 centimetri si dirige verso di me. È Phil.
Per pura fatalità è capitato una decina di posti dietro di me. In quel momento mi sento come Captain America in Infinity War, quando vede comparire dai portali tutti i suoi alleati ed urla “Avengers, assemble!“
A Phil si aggiunge James, un ragazzo della mia età, anche lui venuto da solo da un paese che dista circa 4 ore da Londra. Nasce la triade: Lorenzo, Phil e James.
Capitolo 4: l’ultimo giorno – Fonseca e i brasiliani
La notte passa rapida, le dinamiche sono simili alla precedente. Anche la mattina è molto simile, con la differenza che per vari tratti ci sono stati degli acquazzoni. Se il giorno prima si moriva di caldo, oggi il meteo ci tiene a ricordarci che dobbiamo stare con i piedi per terra, che siamo pur sempre nel Regno Unito.
Io, Phil e James decidiamo di stare assieme e, non appena si aprono i cancelli, ci dirigiamo verso il campo 12 per vedere Fonseca – Brooksby. Non avevo mai visto giocare dal vivo il brasiliano. E già dopo il riscaldamento capisco che è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita.
Non tanto per lui – che comunque ha un dritto spaventoso, capace di far fare alla pallina un suono diverso quando accelera, di “spaccare” la palla – quanto piuttosto per il tifo che Fonseca riesce a generare, indipendentemente da dove giochi.

La magia del tifo brasiliano
Il campo 12 è il quinto per capienza dopo Centrale, 1, 2 e 3. Posti a sedere: circa 2000. Almeno 1800 tifano Fonseca. E almeno la metà sono brasiliani. Ma non brasiliani che vivono in giro per il mondo. Brasile-Brasile. E sono qui per vedere Fonseca giocare.
Accanto a me c’è un signore che vive a San Paolo, ma il fratello vive a Londra e quindi ha colto la palla — o meglio, la pallina — al balzo e con la scusa di visitarlo si è fatto una gita a Wimbledon. La scusa perfetta.
C’è un’atmosfera surreale, il tifo è proprio da stadio. Ad ogni punto, importante o meno, partono cori come “JO-AAA-O FON-SEEE-CA”. Dall’inizio alla fine, dal primo game fino al match point. L’arbitro deve più volte richiamare il silenzio per permettere ai giocatori di proseguire.
Vince Joao 6-4 5-7 6-2 6-4 con un finale thriller ricco di colpi di scena, break e controbreak, ed un ultimo game dove il 18enne ha recuperato da 0-40 per poi chiudere alla prima occasione utile. Campo in delirio. Io sono soddisfatto a livelli irreali.
Sapevo che questa sarebbe stata l’ultima partita che avrei visto quest’anno ai Championships e non ha tradito le attese.
Epilogo: i saluti e le candele all’erba
Saluto Phil e James, ci diamo appuntamento all’anno prossimo. Mi faccio un giro malinconico per tutto il site. Come ultima cosa faccio un salto allo shop e scopro che oltre agli asciugamani, ai completini, alle magliette, alle felpe ed ai souvenir vari vendono anche delle candele al profumo – e non sto scherzando – di erba di Wimbledon appena tagliata.
Ora, non so bene che odore abbia l’erba di Wimbledon appena tagliata, ma so per certo che il profumo che emanano quelle candele è decisamente buono. E, conoscendo la cura con cui tutto il torneo è organizzato, ho proprio idea che quel profumo sia veramente simile a quello reale. Costano più di £40, comunque. Le lascio lì.

Esco dallo shop con solo un canovaccio commemorativo per mia mamma, anche nel 2023 gliene avevo regalato uno.
La mia avventura è giunta veramente al termine, esco dagli impianti e dopo aver ritirato zaino e tenda al deposito B mi dirigo alla stazione della metro. Sono stanco, ma decisamente felice.
Me ne vado arricchito, avendo creato nuove connessioni ed avendo conosciuto nuove persone. Cose che fino a qualche anno fa non avrei mai pensato di poter raggiungere e fare. Per di più da solo. Questo è il bello della Queue: esperienze così difficilmente possono accadere in altri tornei.
Arrivederci Wimbledon. Arrivederci amici. All’anno prossimo.
Ci vediamo in coda.
(Lorenzo Zantedeschi – Guest Writer)