Ogni sport è sempre più importante dei suoi formidabili interpreti. Il tennis resta, i campioni passano! Questo è il verdetto emesso dal campo, tribunale assoluto e indiscutibile, presso gli Australian Open di Melbourne. Le sterili polemiche utili a confezionare la solita orgia commerciale mediatica vengono squalificate in modo perentorio, grazie alla luce abbagliante dell’arte del gioco.
Come suggerisce la buona educazione il sipario si apre con il torneo femminile, dove la testa di serie numero uno, l’australiana Ashleigh Barty, conferma il pronostico. Un metro e sessantasei centimetri di stazza nel tennis contemporaneo non costituisce una dotazione sufficiente alla performance, suggerisce la statistica. Eppure, la piccola grande Ashleigh riafferma quanto già in passato aveva dimostrato il suo connazionale Ken Rosewall. L’agilità mentale è l’aspetto prevalente nel gioco del tennis. “La miglior tecnica del mondo viene sistematicamente vanificata quando è al servizio di una mente incolta e fragile”, recita proprio un vecchio adagio del mitico Ken. Mai nessuno nella storia è partito da così poco, senza statura, senza colpi vincenti, per arrivare così in alto come il leggendario Rosewall. Eppure, uno straordinario cervello tennistico faceva di lui una delle leggende più grandi di sempre. In questo modo, sulla via tracciata dell’immenso Ken, Ashleigh Barty disegnava la sua opera maestra agli Australian Open 2022. Terzo Slam della carriera in singolare dopo quelli conquistati a Wimbledon e al Roland Garros, la portano a tre quarti dall’impresa di poter compiere il “Career Slam”. Vincere tutti e quattro i Mayor anche se in anni diversi. Così, tra un’accelerazione e un cambio di ritmo, una volée e una palla corta, ubriacava le malcapitate muscolari contendenti, alle quali non concedeva neppure la misera mancia di un set in tutto il torneo. Onore a sua Altezza, ironia della sorte, Ashleigh Barty.
Tra gli uomini, quelli ancora sulla terra, ben figuravano giovani quali l’americano Fritz, lo spagnolo Alcaraz ed i canadesi Alliassime e Shapovalov, capaci di portare fino al limite del quinto set i finalisti del torneo. Giovani attesi a prestazioni importanti come auspicato dallo scrivente nel precedente editoriale del 14 gennaio e puntualmente confermati. Così come le favolose racchette azzurre Jannik Sinner e Matteo Berrettini, magnifici protagonisti nell’emisfero australe. Entrambi stoppati, come da copione, da tennisti di maggior rango. Eppure, a mio singolare giudizio, nelle partite che li vedevano uscire dal torneo qualcosa lasciava a desiderare. Sinner esaltava i ritmi e le trame del greco Tsitsipas a tal punto da subire una sonora lezione tennistica. Tra i due si marcava una differenza abissale, in grado di mostrare due tennisti appartenenti a due specie diverse. Un fatto certamente da imputare a un piano di gioco completamente fallimentare. L’augurio è che la vicenda serva da esperienza. Le dinamiche, anche se in maniera differente, si ripetevano nell’incontro dei quarti di Matteo Berrettini. Il romano terminava imbrigliato nella ragnatela di scambi dal fondo campo di Rafael Nadal. Malgrado un servizio portentoso l’azzurro non era in grado di collegare la volée alla battuta, prendendo la rete solo quindici volte in oltre duecento punti giocati contro il maiorchino. Visti gli elementi in gioco il piano di Matteo appariva, mi sia concesso, quantomeno discutibile.
Dulcis in fundo, resta il commento sulla colossale impresa di Rafael Nadal, unico sopravvissuto di un formidabile terzetto di racchette che non appartengono però al pianeta terra. Per non sprecare inutili parole, possibilmente già scritte altrove, cerco di limitare il mio pensiero a qualche particolare riflessione. La prima riguarda un pronostico sbagliato, perché mai avrei pensato come lo spagnolo potesse vincere a Melbourne dopo un tempo tanto lungo di assenza dalle competizioni. La seconda, invece, va ben oltre i decantati primati di ventuno titoli Slam e due Creer Slam alla pari di Emerson, Laver e Djokovic. Di fatto, è impressionante osservare come l’iberico sia oggi il tennista più completo in circolazione. Conosce ogni singola parte del campo. Angoli, traiettorie, velocità, non hanno per lui segreti. In questo modo, riesce a trovare, di volta in volta, la soluzione funzionale per sopravvivere al labirinto della partita. In ciascun momento è in grado di cambiare marcia e piano di gioco, a seconda dell’attimo fuggente. Ma più ancora, proprio come ho scritto nel mio ultimo libro “Break Point”, “grazie allo spagnolo il pubblico scopriva un ulteriore segreto del gioco. Quando lui è in scena, oltre al mulinare di braccia e gambe combinate a un lucido pensiero, interviene un altro fondamentale elemento. Quale? Semplicemente, quando Rafa è sul campo a lottare tra un punto e l’altro, gioca a tennis anche l’anima.”