Terminate le ATP Finals il tennis maschile entra nel vivo della Coppa Davis, o meglio, quella che oggi molti definiscono la Piquet Cup. Senza entrare direttamente nello specifico di questa nuova avventura, volta al rilancio dell’insalatiera più celebre dello sport mondiale, è possibile osservare come la disciplina stia vivendo un momento di transizione. Il gioco del tennis attraversava diverse trasformazioni durante la sua secolare storia con l’intento di riuscire a migliorarsi, per cercare di raggiungere a suo modo la perfezione, laddove sia possibile almeno avvicinarla. Questi sforzi hanno prodotto risultati straordinari. Infatti, se guardiamo all’ultima finale di Wimbledon precedente alla pandemia del Covid, l’audience superava abbondantemente il miliardo di presenze. La partita durava oltre le cinque ore, eppure, l’attenzione generale veniva catalizzata dalle gesta di Novak Djokovic e di Roger Federer. Una tale affluenza, capace di una tale forza gravitazionale per un tempo così lungo non ha precedenti.
Fatta eccezione dello sbarco sulla luna del 1969 si intende. Così, il magnetismo del tennis risulta essere a tutti gli effetti di un livello assoluto, grazie a caratteristiche particolari evolute a suo beneficio nel decorso del tempo e sostenute da una gloriosa tradizione. Difatti, proprio il gioco del tennis possiede peculiarità uniche in grado di distinguerlo dalle altre discipline sportive. Evitando di entrare in noiosi dettagli basta dire come in questo gioco si riparte sempre da zero a zero: inizio game, tie-break, set. E’ possibile vincere totalizzando meno punti e games rispetto all’avversario. Al suo interno esistono due formule di punteggio: la partita al meglio dei tre set su cinque e il due su tre.
Eppure, malgrado queste oggettive evidenze negli ultimi anni sono stati diversi i tentativi di stravolgere quest’arte secolare capace di camminare nel presente in modo più che fiero, oserei dire. Tentativi improntati non certo alla perfettibilità del gioco, ma alle voraci esigenze commerciali, divenute oggigiorno sempre più pressanti. In tal modo, la musica, la grafica, gli effetti scenici di contorno, sembrano quasi prendere il sopravvento sul prodotto che per l’appunto dovrebbe essere il gioco del tennis.
Per intenderci, sembra quasi che la confezione conti molto più del prodotto stesso. Eppure, gli eventi legati alla tradizione come Wimbledon e gli Slam non sono secondi a nessuno sul piano del giro d’affari. Malgrado queste ulteriori evidenze l’orientamento a trasformare un favoloso teatro in una immensa sala giochi pare del tutto evidente. Il gioco con due punti di distacco in cui intelletto e destrezza hanno maggior peso potrebbe lasciare spazio all’idea del punto secco dove il valore si sposta inevitabilmente sul fato. Il gioco del Bridge tramutato nel rubamazzo, si potrebbe affermare.
Una trovata per cercare di attirare velocemente nella mischia anche le menti meno educate? Cercare invece di alfabetizzare gli appassionati di nuovo corso al teatro della racchetta in modo semplice, senza far calare dall’alto alcun peso sul cuore, resta una via neppure presa in considerazione. Del resto, per intraprendere un percorso che implica un minimo supporto culturale necessita di una divulgazione diametralmente opposta a quella attuale. Così, il campione di Wimbledon Wilfred Baddeley scriveva nel 1895: “il pubblico capisce solo chi vince”. Vien da chiedersi cosa sia cambiato nelle competenze e nel gusto di questo ambiente dopo oltre 130 anni. A tutti gli effetti, televisioni, radio, giornali, social e quant’altro, non hanno certo assolto questo compito. Forse qualche buon libro ha tentato l’azzardo, anche se all’interno di una marea di pubblicazioni commerciali l’obbiettivo rimane velleitario.
Ma come dice il proverbio la speranza è l’ultima a morire. Quindi, per alcuni divulgatori resta comunque prioritario tentare di elevare il gusto e le competenze del pubblico, fornendo loro adeguati strumenti per vivere con nuovi occhi emozioni in buona parte sconosciute. A tal proposito, riporto un breve stralcio del mio ultimo libro “Break Point”, a titolo di esempio. Ebbene, è importante sapere come dentro l’anima del tennis convivano diversi registri. Per intenderci, le varie estensioni artistiche e scientifiche si compendiano ampiamente nella disciplina. Il registro principale, ovviamente, resta quello del gioco da sempre magnificato in modo sublime con leggerezza dai suoi formidabili fuoriclasse. Leggerezza da non confondere con la superficialità, essendo il risultato della costruzione di universi combinati in grado di riflettersi dentro la famosa metafora del labirinto.
Di quale essenza si tratta? In questo caso dell’affascinante psicologia del tennis! Così, il labirinto rivela a suo modo la verità disegnando la mappa dei destini, concedendo per l’occorrenza una doppia opportunità. Da una parte abbiamo l’attitudine necessaria per affrontare la complessità della visione del mondo, dall’altra troviamo il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi e del cercare la via d’uscita quale originale intento dell’uomo. Restano esclusi coloro i quali credono di poter superare il labirinto deprivandosi di una scelta. Per queste ragioni, risulta una richiesta impudente quella rivolta alla conoscenza del gioco di fornire una soluzione conclusiva per risolvere ogni dilemma. Quel che invece la conoscenza del gioco stessa può fare è aiutare a definire la miglior predisposizione possibile, a seconda delle caratteristiche di ciascun giocatore, per cercare di scoprire una via d’uscita. Anche se quest’ultima non sarà altro che un passaggio da un labirinto all’altro.
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